Esperimenti per evitamenti

La crescita personale procede per progressiva acquisizione di strumenti. È un continuo apprendimento di abilità. Nuovi attrezzi che si aggiungono ai vecchi. Non c’è sostituzione, c’è aggiunta. Aumento di possibilità.
Non si sostituiscono le abilità sviluppate da una vita. Si integrano con quelle nuove. Quelle vecchie hanno avuto un senso e una funzione di adattamento. E nel tempo hanno costruito l’identità. Tu sei quello che hai praticato di più e di cui sei diventato esperto.
Esiste però un’eccezione alla regola. Qualcosa va progressivamente lasciato. Sono gli evitamenti. Tutti ne abbiamo…Riconosci i tuoi. Trova i tuoi esempi. Solitamente un po’ tutti evitiamo di trovarci in situazioni spiacevoli.
Eviti situazioni in cui potresti sentirti giudicato…
Eviti situazioni in cui potresti spaventarti…
Eviti di metterti in discussione…
Eviti di metterti alla prova per paura di sbagliare…
Eviti di sentire la tua fragilità…
Eviti i pensieri angosciosi…
Eviti…

Sono ancora utili questi evitamenti? Ti servono a qualcosa? Sono sempre sensati? Allora tienili, se servono a qualcosa di vitale ed energizzante e fonte di crescita per te. Altrimenti… Progressivamente e costantemente in modo determinato… Inizia a mettere esperimenti dove ci sono evitamenti.
Questo è un passaggio che prima o poi si incontra in terapia. A volte all’inizio su alcune questioni, altre volte verso la fine quando la persona ha sviluppato enorme consapevolezza, strumenti di riflessione e abilità per un’azione responsabile.
In realtà, è un principio di vita prima che terapeutico. Inizia ad avvicinarti a ciò che solitamente eviti. In maniera pensata ed equilibrata, ma anche coraggiosa ovvero affrontando la paura per farla scomparire. E non aspettando che la paura passi (magicamente?) prima di cominciare ad agire. Aspetta e spera diceva quello…
Se credi che aspettare sia un po’ morire o perlomeno vivere a metà allora inizia da ora. Parti dal piccolo per diventare grande. Inizia da un’area di vita e da un comportamento in cui ti senti sufficientemente coraggioso, il tuo cuore te lo permette; coraggioso da affrontare ciò che temi perché nella tua mente razionale sai e nel più profondo delle tue viscere senti che puoi farcela, che ciò che affronterai potrai sostenerlo e anche se si verificasse la peggiore delle tue fantasie catastrofiche comunque non ti distruggerà. Il tuo cuore lo sa. Allora inizia a farlo, smetti di evitare quella cosa che anche nel tuo cuore senti di poter affrontare…

Il gallo dell’imperatore

Un imperatore era appassionato di pittura. Un giorno gli venne voglia di abbellire la sala del trono con il ritratto di un gallo da combattimento. Mandò a cercare il miglior pittore di tutto il regno. Il maestro dei maestri si presentò al suo cospetto. “Di quanto tempo avrà bisogno per dipingere il quadro?” “Maestà, se volete la miglior rappresentazione possibile di quel nobile animale, dovete accordarmi sei mesi!  L’imperatore accettò e il pittore si chiuse nel suo atelier. Dopo sei mesi il sovrano reclamò il quadro. Il maestro gli annunciò che non l’aveva ancora terminato e chiese altri sei mesi di tempo. Incollerito l’imperatore acconsentì alla richiesta. Attese dunque ventiquattro settimane dominato da quell’ossessione, poi il giorno stabilito si recò all’atelier del pittore seguito da un grande corteo. L’artista si profuse in mille scuse e gli chiese altri tre mesi. L’imperatore diventò paonazzo per il furore: “E così sia, ma dopo quest’ultima scadenza, se il quadro non sarà pronto ti farò tagliare la testa!”. Dopo novanta giorni il sovrano, seguito dai carnefici, si precipitò a casa del pittore. Egli lo fece entrare nel suo atelier dove troneggiava una grande tela bianca. “Ma come?” sbraitò l’imperatore, “non hai ancora fatto niente? Stavolta sei finito. “Tagliategli la testa!” Il pittore, senza dire una parola, afferrò il pennello e con un solo gesto, a una velocità vertiginosa, dipinse il più bel gallo che fosse mai stato visto nel regno. La bellezza dell’animale era talmente impressionante che l’imperatore, estasiato, cadde in ginocchio davanti a quel capolavoro. Dopo essersi ripreso dall’emozione, montò di nuovo in collera. “Tu sei il migliore, lo riconosco, ma meriti lo stesso di essere decapitato! Perché mi hai fatto aspettare così a lungo se potevi soddisfare le mie brame in pochi minuti? Ti sei preso gioco di me!” Allora il maestro invitò il sovrano a visitare la sua casa. E il re scoprì migliaia e migliaia di disegni e schizzi di galli, studi anatomici, volatili impagliati, ossa di galli da combattimento, innumerevoli ritratti su tela, pagine e pagine di appunti, libri specializzati sull’allevamento e un recinto pieno di galli vivi!

Della serie: i risultati, anche straordinari, che ottieni sono il frutto di talento e sforzi disciplinati. E anche della capacità di aspettare con fiducia…

Ti ci ritrovi? Com’è per te?

Le stampelle

Narra una leggenda indiana che il re cadde da cavallo, fratturandosi le gambe così gravemente da perderne l’uso. Imparò a muoversi con le stampelle, ma sopportava male la propria invalidità. Vedersi attorno le persone valide della corte gli divenne presto insopportabile. Rifiutò di mostrarsi menomato. “Poiché non posso essere simile agli altri, pensò un mattino d’estate, ciascuno sarà simile a me.” Fece dunque notificare nelle sue città e nei suoi paesi l’ordine definitivo dell’uso delle stampelle per tutti, pena la morte immediata. Dall’oggi al domani, l’intero regno fu popolato di persone rese invalide. All’inizio, alcuni provocatori si fecero vedere in giro senza alcun sostegno. Fu certo difficile acciuffarli di corsa, ma tutti prima o poi vennero arrestati, condannati e giustiziati per servire da esempio. Nessuno osò ripetere la provocazione. Per proteggere la prole, le madri insegnarono subito ai loro bambini a camminare con le stampelle. Bisognava abituarsi, ci si abituò. Il re visse fino a tarda età. Nacquero parecchie generazioni senza che si vedesse mai nessuno circolare liberamente sulle sue gambe. Gli anziani scomparvero senza dire nulla delle loro lontane passeggiate, senza osare infondere nella mente dei figli e dei nipoti il pericoloso desiderio di deambulare senza sostegni.

Alla morte del re, alcuni vecchi tentarono di liberarsi delle stampelle, ma era troppo tardi, i loro corpi malandati ne avevano ormai bisogno. I superstiti, di solito, non riuscivano più a stare dritti. Rimanevano prostrati su qualche sedia o distesi su un letto. Questi tentativi isolati vennero considerati come innocui deliri di vecchi rimbambiti. Inutilmente raccontarono che un tempo si camminava liberamente, senza stampelle: vennero guardati dall’alto verso il basso, con l’indulgenza ilare concessa ai rimbecilliti. “Ma sì, nonno, andiamo, era senza dubbio ai tempi in cui il becco dei polli aveva i denti!” E con un sorriso, uno scambio di occhiate, scrollavano il capo ascoltando la vecchia voce, prima di andare a ridere di nascosto.

Lontano, sulla montagna viveva un vigoroso vecchio solitario che, appena morto il re, gettò le stampelle nel fuoco senza esitare. In realtà erano anni che non usava le stampelle in casa o in luoghi isolati. Le usava nel villaggio per evitare le noie ma, non avendo né sposa né figli, non si era privato del piacere della sua bella camminata. Non esponeva altri che se stesso, e per di più in tutta segretezza!

Il mattino dopo, si recò spavaldamente in piazza e, rivolto ai suoi compaesani sbalorditi, disse: “Ascoltatemi, dobbiamo ritrovare la nostra libertà di movimento, la vita può riprendere il suo corso naturale poiché il re invalido è ormai morto. Chiediamo che venga abrogata la legge che costringeva gli esseri umani a camminare con le stampelle!” Tutti lo guardavano, i più giovani furono immediatamente tentati. La piazza brulicò ben presto di bambini, di adolescenti e di altri sportivi che tentavano di muoversi senza stampelle. Ci furono risate, cadute, scorticature, lividi, ma anche arti rotti poiché i muscoli delle gambe e della schiena non avevano mai imparato a sorreggere il corpo. Il capo della polizia intervenne: “Smettetela, smettetela! È troppo pericoloso. Tu, vecchio, va a esibirti nelle fiere, è chiaro che gli uomini non sono fatti per camminare senza stampelle! Guarda quante piaghe, quanti bernoccoli e quante fratture ha provocato la tua follia! Lasciaci vivere normalmente. Sparisci e, se vuoi vivere tranquillo, non tentare più di traviare questa bella gioventù!” Il vecchio alzò le spalle e se ne tornò a casa a piedi. Scesa la notte, udì grattare piano alla sua porta. Era un rumore così leggero che lo attribuì a un ramo agitato dal vento. Non aprì. Allora qualcuno bussò distintamente alla porta. “Chi siete? Che cosa volete?” chiese. “Apri nonno, per favore” bisbigliò una voce.” Il vecchio aprì. Dieci paia di occhi brillanti lo guardavano con ardore. Un ragazzino, fattosi avanti, mormorò: “Vogliamo imparare a camminare come te. Accetteresti di prenderci come discepoli?” “Discepoli?” “Maestro è questo il nostro desiderio.” “Bambini, non sono un maestro, sono solo un uomo in gamba, nel senso più semplice della parola.” “Maestro, per favore, supplicarono all’unisono.” Il vecchio ebbe voglia di ridere, ma, contemplandoli un attimo, si commosse. Capì che la faccenda era seria, persino capitale, che quei bambini erano coraggiosi, ardenti, pieni di vita.

L’avvenire era nelle loro mani. Spalancò la porta per accoglierli. Per mesi, senza dire niente a nessuno, i ragazzini si recarono dal vecchio da soli o in due alla volta per non dare nell’occhio. Quando furono abbastanza abili, andarono a piedi, insieme al villaggio. Guardate, dissero, osservateci, è facile e divertente! Fate dunque come noi! Un’ondata di panico invase i cuori timorosi. Gli abitanti del villaggio aggrottarono le sopracciglia, li additarono, si spaventarono molto. Intervenne la polizia a cavallo per far cessare lo scandalo. Il vecchio fu arrestato, portato in tribunale, condannato secondo l’editto reale e giustiziato per aver pervertito dieci innocenti. I suoi discepoli, disgustati dal trattamento inflitto al loro maestro, dichiararono a gran voce sulle piazze che camminavano e ne erano soddisfatti, mostrando a chi volesse vederli quanto fosse comodo avere le mani libere e leste. Le loro dimostrazioni vennero giudicate fallaci. Furono arrestati e gettati in prigione. Si ritenne tuttavia che fossero stati trascinati nell’errore e si concessero loro le circostanze attenuanti, quindi furono condannati solo a pene leggere. Alcuni ostinati non vollero rinunciare a sostenere che bisognasse camminare senza stampelle. La comunità inquieta, sconvolta nelle proprie abitudini dal loro strano comportamento, li allontanò per prudenza dal villaggio, invitandoli a esibirsi nelle fiere. Per coloro che erano rimasti e che insistevano davvero in modo eccessivo, si dovette talvolta applicare con rigore la legge; in generale, tuttavia, vennero piuttosto commiserati e trattati come gli scemi del villaggio, tenuti a distanza dai bambini o dalle buone famiglie.

Ancora oggi, durante le veglie serali, si bisbiglia con parole velate che esistono malgrado tutto, qua e là nel mondo, gruppetti che non sembrano dei mentecatti e che sostengono di camminare da soli, senza stampelle.

E tu come cammini?

Chi ti ha insegnato a camminare?

Hai un tuo modo tutto tuo di camminare?

La festa

Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell’araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza. “Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno. Ognuno riceverà una piacevole sorpresa. Domanda però a tutti un piccolo favore: chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po’ d’acqua per riempire la riserva del castello che è vuota.”. L’araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello.

Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi. “Bah! È il solito tiranno! Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio. Io porterò un bicchiere d’acqua, e sarà abbastanza!” “Ma no! È sempre stato buono e generoso! Io ne porterò un barile!” “Io un ditale!” “Io una botte!”

Il mattino della festa si vide uno strano corteo salire al castello. Alcuni spingevano con tutte le loro forze grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d’acqua. Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchierino su un vassoio. La processione entrò nel cortile del castello. Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, lo posava in un angolo e poi si avviava pieno di gioia verso la sala del banchetto. Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti.

“E la sorpresa promessa?”, brontolarono alcuni con disappunto e delusione. Altri dimostravano una gioia soddisfatta: “Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!”. Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente. Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente. Esclamazioni di gioia e di rabbia. I recipienti erano stati riempiti fino all’orlo di monete d’oro! “Ah! Se avessi portato più acqua” (Bruno Ferrero).

Cosa ti suscita questa storia? Quali riflessioni? Che sensazioni? Che insegnamenti?

Il seme

C’era una volta un principe che non aveva ancora trovato moglie. Il padre era preoccupato: “quando morirò tu dovrai diventare imperatore, ma lo diventerai solo se sarai sposato. È così che stabilisce la legge, perciò, figlio mio, trova moglie.”

Il principe seguì il consiglio di un saggio e decise di radunare a palazzo tutte le fanciulle del suo regno. “La più degna colpirà il mio cuore e diventerà mia sposa” ripeteva tra sé e sé il principe.

Il giorno stabilito si presentarono a palazzo le più belle e affascinanti fanciulle del regno, avvolte in abiti ricchi e luccicanti. Tra loro c’era anche la figlia di una serva del re, Kaori, che non era bella. Non era neanche ricca. La madre aveva cercato inutilmente di trattenerla a casa: “non andare, il principe non ti degnerà di uno sguardo, non puoi competere accanto alle altre.” Kaori era stata irremovibile: “andrò a palazzo madre. So che non potrei mai essere io la prescelta, ma avrò almeno la gioia di avvicinarmi per un attimo al principe.”

Il principe annunciò la sua sfida: “benvenute a voi tutte. A ciascuna di voi darò un seme: colei che fra sei mesi mi porterà il fiore più bello diventerà mia sposa, la futura imperatrice.”

Kaori prese il suo seme e appena tornata a casa, lo piantò in un grande vaso di argilla. Ogni giorno gli portava acqua, si assicurava che non patisse il freddo, che non assorbisse troppa umidità, che i raggi del sole non lo colpissero direttamente e troppo a lungo. La madre, guardando la sua perseveranza, pensava: “il principe dovrebbe sposare lei, per la grandezza del suo amore paziente.”

Dopo un mese dalla terra del vaso di terracotta non era spuntato alcun germoglio. Nulla. Kaori consultò anziani giardinieri, applicò i loro consigli. Non crebbe nulla. Dopo sei mesi il seme non era cresciuto. Niente. Neanche una minuscola fogliolina.

Arrivato il giorno dell’udienza dal principe, Kaori decise di portargli ugualmente il suo vaso, come segno del suo amore paziente. “Figlia mia, non andare. Le ripeteva la madre fin dall’alba. Come credi che reagirà il principe, vedendo un vaso vuoto?”

Giunta a palazzo, Kaori si mise in fila dietro a centinaia di giovani donne che tenevano tra le mani fiori bellissimi, stupendi, dai profumi inebrianti. Il principe ammirava ogni fiore che passava davanti a lui. Quando le si presentò davanti Kaori, il principe scrutò il vaso colmo solo di terra con grande attenzione. Dopo di lei sfilarono altre fanciulle, tutte orgogliose dei loro magnifici fiori. Alla fine il principe si alzò dal trono e annunciò la sua decisione: “mia sposa diverrà quella giovane donna che tiene il vaso di terracotta da cui non è cresciuto alcun fiore.”

Le altre reagirono stupite: “ma come? Non è giusto. Che decisione è questa?”

Il principe le fece tacere con un cenno della mano e spiegò: “quella donna è l’unica che ha saputo far crescere il fiore dell’onestà. È degna di diventare imperatrice. I semi che vi ho dato erano senza vita, sterili; non avrebbe mai potuto crescere nulla da quei semi.”

Kaori e il principe si sposarono il primo giorno di primavera e la loro vita insieme fu felice.

Chissà quante volte la realtà è vicina a questo ideale?!?!

E tu cosa avresti fatto? Ti è mai capitata una situazione simile?

 

Per il tuo cambiamento

Pensa alla tua vita, in generale o in alcuni ambiti specifici (famiglia, lavoro, coppia, genitori, figli, amici, sport, interessi ricreativi, ecc.), alla situazione attuale oppure ad un’intera traiettoria esistenziale, da quando sei nato ad oggi, e completa le frasi seguenti o, se vuoi considerale domande a cui rispondere, una volta o tante volte; rifletti e rispondi, rifletti ed agisci di conseguenza.
Cosa ho permesso…
Cosa non mi sono permesso…
A cosa ho rinunciato…
Cosa ho preferito…
Cosa ho lasciato che accadesse…
Cosa rende la mia vita piena di valore…
Cosa mi posso criticare…
Cosa devo imparare da questa autocritica…
Quali bisogni e desideri importanti restano per me insoddisfatti…
Cosa voglio fare con questa consapevolezza…
Cosa mi voglio permettere…
Quali azioni voglio e devo cominciare ad attuare…

Puoi usare questa griglia sia pensando a grandi aree di vita sia pensando a singoli, specifici obiettivi. Comunque, se rifletti e metti per iscritto i tuoi pensieri e stati d’animo puoi fare enorme chiarezza rispetto a questioni centrali che determinano il tuo benessere e il tuo malessere. Come sempre, la consapevolezza apre la strada alla responsabilità ovvero alla possibilità di scegliere quali azioni mettere in campo, le solite o alcune nuove…

Confini

Il confine è la delimitazione e la separazione di due aree. Sconfinare equivale ad invadere. Da un punto di vista psicologico, violazione dei confini personali è sinonimo di “abuso”.

I confini sono della mente e del corpo.

I confini delimitano i rapporti tra due persone, la vicinanza e la distanza, il contatto e il distacco, la capacità di riconoscersi individuo e anche di sentirsi parte di legami e gruppi.

I confini sono anche interni, esprimono la capacità dell’individuo di differenziare le emozioni dai pensieri, i bisogni e i desideri, una sensazione fisica da una fantasia mentale. E di differenziare ciò che appartiene a sé (pensieri, emozioni, sentimenti, sensazioni, bisogni, desideri, valori, ecc.) da ciò che appartiene agli altri.

Rispettare i confini significa rispettare la persona.

Quando sono piccoli, i genitori devono proteggere i figli dall’abuso fisico, emotivo e sessuale. Così facendo trasmettono ai bambini il senso e il valore dei loro confini, la loro dignità di persone rispettabili. Anche perché i piccoli altrimenti non sanno dove sta il limite e non sanno difendersi da chi tende a superarlo. I figli imparano così l’abilità di farsi rispettare, di mettere un confine, di mettere limiti agli altri invadenti, di dire no a richieste inadeguate, eccessive, fuori luogo e senza senso.
Chi conosce bene i confini personali saprà da adulto farsi rispettare nelle relazioni, saprà “lasciar entrare e accogliere con piacere” e saprà anche “tenere fuori e respingere” con fermezza e determinazione. Consapevole dei propri bisogni e desideri e della necessità di rispettare se stessi.
Purtroppo a volte non è andata come sarebbe dovuta andare, i genitori non hanno protetto né hanno trasmesso al figlio il valore dei giusti confini individuali. Il bambino è cresciuto con un profondo senso di insicurezza e imprevedibilità, un senso di minaccia e paura che prima o poi possa accadere qualcosa di brutto e doloroso. Ciò ha favorito, direttamente o indirettamente, esperienze di abuso che hanno lacerato internamente la persona creando il terreno per una futura sfiducia nei rapporti interpersonali, diffidenza, chiusura, paura di ogni relazione interpersonale. Ad esempio, il bambino ha subito maltrattamenti e umiliazioni ripetute sul piano fisico, emozionale, verbale, perfino sessuale, da persone estranee o anche proprio da persone vicine che, invece che fonte di protezione, sono state fonte di minaccia, manipolazione, inganno, mortificazione, tradimento. Così crescendo, il bambino, che ancora non conosce le regole del mondo, ha “imparato” ad essere “normalmente” violato ed abusato e progressivamente ha interiorizzato la convinzione di essere colpevole, sbagliato, cattivo, senza valore e di meritare quello che gli accade. E come potrebbe essere diversamente? I bambini imparano ciò che vivono.
Il bambino, tanto più è piccolo e dipendente, non capisce il confine tra normale e anormale, tra giusto e sbagliato, tra ciò che si può fare e ciò che non si deve fare. Se il genitore non glielo insegna o trasmette, quel bambino diventerà un adulto più o meno confuso rispetto a “dove sta il limite”, dove finisce uno scambio piacevole e sano e dove inizia una manipolazione e un abuso.

Spesso le persone portano in terapia un problema di confini. All’inizio non se ne rendono nemmeno conto e quando ne diventano consapevoli spesso se ne vergognano o si sentono in colpa o cercano di negarlo in quanto troppo doloroso o fonte di rabbia. Aiutare una persona a riconoscere i propri confini e imparare a rispettarli per farli rispettare può diventare un lavoro estremamente profondo su se stessi, con enormi implicazioni nella gestione pratica dei rapporti interpersonali e nella scelta futura di persone realmente amorevoli e rispettose.

Il potere sul mondo

Solitamente ciascuno di noi affronta due tipi di problemi. Problemi col mondo esterno e problemi del mondo interno.
Il primo tipo di problemi riguarda i rapporti concreti con le persone. Un capo tiranno, un collega manipolatore, un collaboratore antipatico, un cliente mai soddisfatto, un fornitore poco affidabile. Una crisi di coppia, conflitti su scelte strategiche per il futuro, difficoltà nell’intimità sessuale, tradimenti, disillusioni, distanza e freddezza, ecc.. Figli malati o poco educati o troppo timidi, con difficoltà scolastiche e senza amici, ecc.. Conflitti coi genitori, genitori anziani o malati, problemi coi fratelli, ecc. Gli esempi potrebbero continuare ancora a lungo e riguardare diversi ambiti di vita, anche nelle amicizie, piuttosto che nella gestione delle finanze o per questioni di salute. Comunque sia, si tratta di problemi su cui abbiamo un certo grado di potere e incidenza nella misura in cui una parte di questi problemi coinvolgono altre persone o altri fattori da noi in parte controllabili o solo scarsamente influenzabili. Noi possiamo in queste circostanze agire per cambiare alcune cose, ma non altre: possiamo comunicare i nostri bisogni e fare delle richieste, ma la risposta alle nostre richieste dipende dagli altri; possiamo modificare un certo nostro stile di vita e comportamento e possiamo ottenere risultati da noi sperati, ma solo in parte determinati dalle nostre azioni. E via così.
Il secondo tipo di problemi, invece, ci vede con un grado maggiore di potere in quanto mentre le persone del mondo reale agiscono da una loro personale prospettiva soggettiva più o meno vicina alle nostre esigenze, i personaggi del mondo interiore sono tutti “cosa nostra”, sono a casa nostra dove noi siamo padroni. Lo stesso inconscio, spesso ospite indesiderato con le sue pretese, è in parte da noi governabile nel momento in cui lo conosciamo attraverso gli esiti delle sue spinte e pressioni.
Il mondo interiore, scenario specifico del lavoro psicologico e di cambiamento personale, è abitato da personaggi, voci, immagini e figure che sono l’esito della nostra storia di vita, eco e specchio delle persone che abbiamo incontrato realmente, che ci hanno influenzato e che oggi “ci portiamo dentro”; abitato da esperienze traumatiche realmente vissute e che si sono “incarnate nel nostro corpo” a formare una memoria muscolare corporea, sensoriale che ancora oggi “ci influenza da dentro”.
La persona che arriva a chiedere aiuto, anche quando riferisce problemi del primo tipo, apparentemente solo ed esclusivamente di tipo pratico e concreto legato a persone reali frustranti e deludenti, fonte di rabbia, paura, tristezza, umiliazione, disprezzo, vergogna, colpa e altre emozioni negative, in realtà sta dicendo anche qualcosa di importante su come funziona il suo mondo interiore nella gestione dei problemi reali.
In psicoterapia, la persona impara ad interagire con questi personaggi “stressanti, frustranti, traumatici” del mondo interiore in modo diverso da come ha sempre fatto. Ad esempio, di fronte ad un “giudice interiore sprezzante” invece di soccombere impara a rispondere a tono, fino a farsi rispettare e sentirsi giustamente soddisfatto dei propri risultati invece che continuamente in difetto; oppure impara semplicemente a non ascoltarlo, ad ignorarlo, proseguendo per la strada tracciata dai propri desideri, valori e progetti. Altri esempi: di fronte ad una “sensazione interna di trascuratezza” invece che considerarla il proprio destino ineluttabile di individuo senza qualità e valore, la persona impara a chiedere per i propri bisogni fino a sentirsi più amata, amabile, protetta e curata; di fronte ad una “figura interiore colpevolizzante” la persona impara a prendersi le giuste responsabilità, senza accollarsi rimproveri e colpe che non le appartengono; di fronte ad un personaggio interno sofferente e lamentoso, la persona, invece di correre in soccorso come ha fatto per una vita, impara a fornire la giusta comprensione e il giusto aiuto, senza immolarsi nell’autosacrificio senza limiti della modalità “a disposizione”.
Attraverso un nuovo dialogo interno, sperimentato e appreso concretamente in seduta “con tutto il proprio corpo”, la persona migliora la propria autostima, regola in modi più equilibrati le sue emozioni, diventa capace di decisioni più sane e giuste per sé, acquisisce una capacità, mai avuta in precedenza, di scelta consapevole, autonoma e responsabile.
Da ultimo, ma non per importanza, quando la persona ha “spostato certi equilibri nel mondo interno” ha acquisito anche maggiore potere ed efficacia nella gestione dei problemi col mondo esterno.