Avrei voluto chiamare questo post Un mondo di juventini e l’importanza di essere romanisti

Purtroppo la società odierna, molto di più rispetto a qualche decennio fa, sembra legittimare solo alcune possibilità dell’umano esistere. Siamo tutti impregnati del DOVER VINCERE, in tutte le sue sfumature emotive e relazionali. Nessuno spazio mentale è concesso alla POSSIBILITÀ DI PERDERE, in tutte le sue accezioni.
Dobbiamo tutti essere iperperformanti in direzione dell’efficacia e dell’efficienza personali in ogni ambito e ruolo di vita. Non possiamo permetterci di non raggiungere obiettivi o soddisfare aspettative. Conseguentemente non possiamo sentire fragilità e dolore, tristezza e paura.
Chi deve assolutamente vincere e chi non può mai perdere diventano entrambi portatori di sofferenza.
Ogni piccolo scarto da aspettative ideali e grandiose diventa fonte di sofferenza. E quando non si adempiono alla perfezione le aspettative su come dover essere non è permessa alcuna espressione del dolore. Anzi nemmeno il suo riconoscimento a volte.
Nota quanto è presente questo funzionamento nella tua vita quotidiana… Al lavoro… Nella coppia… Come genitore… Come figlio… Come amico… In qualsiasi attività tu sia impegnato, magari anche in attività ricreative che vengono comunque invase da aspettative ideali di perfezione e successo e dall’impossibilità di viverle per come si presentano con la necessità di nascondere, a sé e agli altri, ogni segno di frustrazione e delusione, dolore e tristezza, paura e rabbia. Con annessa l’incapacità di assumersi serenamente la responsabilità delle proprie azioni accompagnata dalla tendenza ad incolpare qualcuno o qualcosa del proprio ‘impossibile fallimento’.
Successo e fallimento sono proprio le polarità in cui viene sistematicamente interpretata e vissuta la propria esperienza. Lasciando ben poco altro da valorizzare. O vinci o sei ultimo. O domini o null’altro ha valore.
Ogni nostro comportamento è guidato dalla motivazione competitiva che fino ad un certo punto è funzionale, utile per raggiungere i propri obiettivi, ma che, se portata all’eccesso, diventa disfunzionale: per la necessità assoluta di vincere (pena la perdita di stima e valore personale e la paura di essere meno interessanti per gli altri) e l’impossibilità di perdere (pena il rischio del rifiuto sociale, della vergogna e del disprezzo, anche auto-inflitto).
Siamo diventati maestri nel negare o nascondere le emozioni dolorose (tristezza, paura, vergogna e anche rabbia). Abbiamo imparato a non riconoscerle o non legittimarle, quasi fossero malattie o peccati o pecche da eliminare rispetto alla necessità di raggiungere il proprio ideale perfezionista. Le abbiamo associate a debolezza e vulnerabilità, quindi qualcosa da allontanare dalla mente, in una società inflazionata dai miti della felicità perfetta e del successo a tutti i costi. Un falso sé grandioso sgomita e non lascia spazio a un sé autentico, reale, umano, completo, integrato, fallibile, imperfetto. Non c’è spazio mentale per la mancanza, l’ambivalenza, la non perfezione.
In questo modo, cacciata dalla finestra, quella sofferenza, reale e autentica, butterà prima o poi giù la porta e si ripresenterà attraverso sintomi e malesseri più o meno gravi e dolorosi.
Molte persone che chiedono il mio aiuto professionale portano una sofferenza che nasce dall’impossibilità di perdere (o semplicemente arrivare secondi a volte) o dall’impossibilità di manifestare il proprio dolore da sconfitta e perdita.
La cura comincia dal riconoscimento, dall’accoglienza e dalla legittimazione di quel dolore. Quindi prosegue col riconoscimento dell’aspetto persecutorio delle aspettative ideali grandiose, figlie di questa società narcisistica, malata di apparenza che copre il vuoto di sostanza. Aspettative interiorizzate, fatte proprie, più o meno consapevolmente, attraverso cui diventiamo i peggiori nemici di noi stessi, alla ricerca del dover essere all’altezza senza mai riuscirci, sentendoci sempre “non abbastanza”.
Riconosciuto l’aspetto patologico di aspettative esterne ed interne, è importante comprendere a cosa serve funzionare in questo modo. È l’unico modo per sentirsi persone amabili e di valore? E l’unico modo per sentirsi parte di legami e di gruppi? È l’unico modo per avere accesso a risorse limitate (ricchezza materiale e affettiva)? È l’unico modo per essere appagati, sereni e felici?
Questa investigazione porta quindi a cercare e inventare un modo più adatto a sé per stare al mondo, con sé e con gli altri, per sentire autenticamente che si sta procedendo sulla strada di obiettivi e valori veramente importanti per sé. Imparando a godere della vittoria e concedendosi anche di vivere la sconfitta. Continuando a perseguire i propri obiettivi, anche ambiziosi, senza negare i sentimenti dolorosi della sconfitta. Imparando quindi a considerare diversi modi e forme della vittoria e dell’esperienza appagante…

Forte coi deboli e debole coi forti

Troppo semplice, anzi semplicistica l’idea, così diffusa socialmente, anche e soprattutto negli ultimi anni ad opera dei social media, sull’incastro patologicamente perfetto tra un narcisista (quasi sempre, ma non sempre uomo) e una dipendente affettiva (solitamente, ma non necessariamente donna). Il narcisista arrogante e manipolativo e la dipendente sottomessa e compiacente. Lui sfruttatore egoista e lei vittima impotente. Ecco: non è proprio così. Al massimo, queste sono le maschere sociali, ciò che più facilmente si vede sul piano comportamentale: un forte che schiaccia un debole.
Oltre questa semplicistica visione, esiste la complessità del mondo interno dei due protagonisti della relazione patologica, impegnati in un circolo interpersonale disfunzionale in cui entrambi finiscono per soffrire e a cui entrambi danno il loro contributo che rinforza ed alimenta una relazione frustrante per entrambi, anche se in forme diverse. Entrambi finiscono schiacciati dai propri schemi interni: il narcisista che deve proteggere un (non riconosciuto) senso di sé fragile, svalutato, privo di valore, non amabile; la dipendente che, altrettanto invasa da sentimenti di scarso valore, continua a cercare negli altri qualcosa che deve cominciare a costruire dentro di sé in modo autonomo.
Da aggiungere, tra l’altro, che esiste anche una forma più nascosta di narcisismo, spesso mascherata da un atteggiamento schivo, riservato, a tratti evitante le relazioni, in cui la dinamica psicologica è simile, per molti versi, a quella della forma arrogante di narcisismo: la necessità di proteggere un sentimento profondo di scarso valore di sé e la percezione di non essere degno d’amore. Quando questa persona riesce ad avere relazioni, gli esiti sono spesso gli stessi succitati: manipolazione, svalutazione di sé e dell’altro, incapacità di vera intimità del rapporto.
In ciascuna di queste relazioni fonte di sofferenza, il rapporto apparentemente è tra adulti, ma i motivi profondi, i bisogni frustrati e le modalità comportamentali originano nella ferita infantile di entrambi i partner della relazione.
In psicoterapia, solitamente arriva la dipendente affettiva, magari estenuata dalla solita relazione ‘subita’. Più raramente arriva il narcisista perché non crede di avere un problema né di aver bisogno di aiuto. Quando arriva a chiedere aiuto è perché messo alle strette dalle persone che si sono stufate dei suoi comportamenti e che lo invitano (minacciano) a farsi aiutare, pena la fine della relazione.
La psicoterapia, individuale o in coppia, dovrà prima di tutto creare un’adeguata alleanza di lavoro, fuori da mistificazioni e colpevolizzazioni, di sé e dell’altro. Sia la dipendente sia il narcisista, per diverse vie certamente, possono essere aiutati ad uscire fuori da meccanismi colpevolizzanti, per cominciare a guardare le cose da adulti consapevoli e responsabili. Ciascuno facendo la sua parte. Un lavoro tanto impegnativo quanto profondamente trasformativo. Per imparare ad integrare nel mondo interno e sul piano dei comportamenti le proprie aree di forza e di debolezza. Per affrontare la paura di essere fragili e la paura di cavarsela da soli. Un lavoro potenzialmente rivoluzionario…
Alla fine di questo post, diversamente dal solito in cui ti consiglio di leggere ‘Alice nel paese delle miserie’, il mio libro che puoi ordinare direttamente in libreria oppure on line, mi sento di consigliarti vivamente la lettura di ‘Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista’, ultima fatica narrativa di Giancarlo Dimaggio, uno dei più grandi esperti internazionali nella psicoterapia del narcisismo. E scrittore vivace ed ironico, capace di farti comprendere, col sorriso, la profondità delle umane miserie.

“Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista”.

Il narcisista è un tiranno e non solo. Tratta male gli altri, fino al disprezzo. Ma, controintuitivamente, è soprattutto un bambino ferito. Una ferita da trascuratezza, da mancato accudimento. È arrabbiato per qualcosa che avrebbe dovuto ricevere in origine e non ha ricevuto.
Ha paura. Prova dolore. Un dolore nucleare, profondo, di vergogna: si sente non amato e privo di valore. Ha costruito nel tempo una corazza di arroganza a protezione della sua vulnerabilità, un guscio grandioso per schermarsi dal giudizio che colpisce chi si è sentito non amato, non apprezzato e ha imparato a credere di sé di non essere amabile né degno di stima. Un misto di arroganza e vergogna, bisogno di essere ammirati e invidia, pretesa e paura. Il tutto indossato con la più falsa delle maschere: si crede di essere, consapevolmente, chi sente di non essere, inconsapevolmente. Per questo il narcisista è ostile e aggressivo, soprattutto verso chi lo critica; ostile oltre ogni ragionevole misura: a nessuno piace essere criticati, sì poi magari impariamo ad usare la critica in modo costruttivo, ma per il narcisista sentirsi criticato equivale ad aprire la botola che lo farà precipitare nel buio più oscuro della perdita d’amore e di valore.
Il disprezzo verso l’altro è la reazione che maschera il proprio senso di profonda insicurezza. Che invita alla competizione sfrenata e ad inseguire il perfezionismo, per tentare inutilmente di lenire il dolore, dove la competizione si svolge su un campo minato, dove “non esiste qualcosa come il secondo posto, esiste il primo e l’ultimo”. Col diavolo ad aspettarti… Anzi a rincorrerti… Per cui scappi e scappi e scappi e corri e corri e corri e cerchi il primato perfetto per sfuggire al tiranno del “non sei come dovresti essere”. Di origine infantile.
Tiranneggiato in origine. Tiranno degli altri oggi. E tiranno di se stesso. Una maschera che copre una fragilità vestita di disprezzo per gli altri, quasi sempre, ma anche una facciata schiva, altre volte. Che schiva il contatto con l’altro e con se stesso, come un fiume carsico che aspetta solo il momento giusto per rivelarsi in tutto il suo disprezzo.
Questo è il narcisista che si incontra in terapia, quando ci viene, quando ce l’hanno mandato; questa la fragilità vestita di grandiosità che chiede di essere svelata, quando il narcisista rimane in terapia e i lavori sono effettivamente in corso; questo il volto della paura, del dolore e della vergogna che chiedono di essere riconosciuti, quando la cura funziona.
Questo è il narcisista che fugge, narrato da Giancarlo Dimaggio, terapeuta esperto di narcisisti, nella sua ultima opera narrativa: ‘Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista’ (Baldini e Castoldi). In cui l’autore, con umile competenza e vivace ironia, narra storie di vita incontrate della stanza di terapia.
Il narcisista è portatore insano di una moltitudine di sfaccettature, un misto che è un mistero, succulento da svelare per chi ha voglia di capirci di più, di comprendere la ferita dietro la barricata della pretesa: “la pretesa di essere venerati intrecciata al timore di essere presi a sputi e pietre”. Paura! Di cosa? Del caldo che diventa freddo. Anzi scoprire che forse è sempre stato solo tiepido. Meglio allora fuggire. Fuggire sì, ma dove? Da cosa, soprattutto? 
Fuggire dal dolore, dalla vergogna, dalla vulnerabilità. Prelibatezza per il diavolo. Quelli esterni di diavoli, ma soprattutto quello interiore.
Fuggire dalla paura di non essere riconosciuti se non come oggetti al servizio dell’altro, dell’altro che controlla, che manipola o che è indifferente o poco più che tollerante.
Fuggire dal senso di colpa che il narcisista vive quando prova ad immaginare una vita piena di iniziativa che però fa soffrire l’altro.
Fuggire… Prima del precipizio dell’angoscia di non conoscere l’amore. Non averlo forse mai sentito. Prima dell’abisso: sentire quel dolore di chi si sente privo di valore.
Insomma… Libro consigliatissimo… Per tutti… Per chi narciso non sa di esserlo… Per chi non riesce  ad allontanarsi dal narcisista o difficilmente potrebbe farlo… Per un regalo, della serie ” che avrà voluto dirmi!?”. Per ogni terapeuta che voglia veramente capirci qualcosa di questo dolore e del suo potere distruttivo. E anche delle possibilità reali di trattamento efficace.

La colpa è Mia

Ti senti in colpa quando deludi qualcuno. Ti senti libero quando non deludi te stesso.
La colpa è Mia. La colpa è mia. La colpa sono io. Sono io il responsabile portatore (sano? Sano!) di emozioni, sensazioni, insoddisfazioni. Aspettative e frustrazioni. Quello che ci metti tu è di essere ciò che sei. Di agire come agisci. Potrei giudicare in molteplici modi e con infiniti aggettivi il tuo comportamento e il tuo modo di essere. Ma sarebbe utile? Forse né utile né giusto. Se la colpa è mia. Sono io che scelgo e devo scegliere. Scegliere il solito o scegliere altro. “Occorre che faccia qualcosa, mi devo mettere in discussione, devo rimettere tutto in discussione” dice Mia pensando alla pigrizia di Alessandro rispetto al pensare il loro rapporto. Che per Mia ha bisogno invece di parole, pensieri, emozioni condivise. Autenticamente. “Prima di tutto devo capire io da che parte voglio andare” dice Mia. Se restare o andare. Se restare, come? Se andare, dove? Suggerisce il lettore.
Questa è la traccia di “La colpa è Mia”, libro appena uscito del mio amico Paolo Basili, che scrive “dalla voce di una donna”… Che invito tutti ad ascoltare, a leggere.
Nella coppia portiamo noi stessi, con le nostre parti vere e le nostre maschere. Anzi nella vita. Mischiamo tutto con l’altro. E ne usciamo fuori un po’ diversi e un po’ uguali, ancora più uguali a prima. Quanto diversi? Chissà quanta autenticità? Quante maschere? Quante parti oscure illuminate e quante luci spente…
L’altro è quello che è… Il disorientamento di fronte all’altro è nostro. Le emozioni contrastanti sono nostre. I dubbi sono nostri. L’indecisione è nostra.
E il manuale della coppia comincia a scriversi…
Di fronte al desiderio posso chiedere… Ed essere veramente disposto ad accogliere ogni risposta, ascoltando le mie emozioni davanti al sì e davanti al no…
Di fronte al desiderio posso aspettarmi che l’altro lo esaudisca… E che io non mi esaurisca ad aspettare ciò che “dovrebbe” arrivare anche senza chiederlo…
Di fronte al desiderio posso pretendere che l’altro sia proprio come lo voglio, come lo voglio io. L’altro “deve”, senza se e senza ma… Ma quasi mai questo scenario ha un esito felice… Anzi togliamo il quasi!
“Dove inizio io per lui?” si chiede Mia. E quindi dove inizia lui per te? Suggerisce il lettore.
E poi la libertà!!! La libertà da cosa? La libertà per cosa? La libertà dai vincoli esterni (la malattia, il tempo inesorabile, il potere degli altri)… La libertà dalle proprie “strettoie mentali”. La libertà dalle scelte fatte da altri su noi e che abbiamo dovuto subire. Abbiamo scelto di subire. Insomma la libertà è la libertà dalle nostre scelte, prima che delle nostre scelte. Dalle nostre scelte precedenti. Da ciò che crediamo le uniche scelte a nostra disposizione. Da ciò che crediamo l’unica possibilità di scelta. La libertà è insomma inventare nuove possibilità… “Sono prigioniera delle mie scelte” dice Mia. E questa è una consapevolezza fondamentale, suggerisce il lettore. E il papà di Mia, invaso dalla demenza, ma soprattutto dalla saggezza, le dice (o a lei piacerebbe le dicesse?): “noi siamo le strade che percorriamo e le persone che incontriamo, dai genitori in poi… Le scelte che facciamo, ma a volte non sappiamo scegliere… Da una strada ci si può spostare su un’altra perché molte di queste vie prima o poi si incrociano… Questi incroci sono delle opportunità. Crediamo che la vita sia un percorso immodificabile. Non è mai così”.
Quindi sorge necessaria la curiosità. La curiosità di altro… Di un altro. Un altro da me. Un altro me! La curiosità tra eccitazione e paura…
Attraverso una coincidenza. E una poesia. Una coincidenza? Jung la chiama sincronicità. Un destino da scegliere? E il momento del coraggio… Che scema… O non arriva mai!
Perché siamo tutti irrisolti, abbiamo tutti qualcosa da risolvere… Da sempre persi nella ricerca dell’amore tra gli amori apparenti. Perdendo l’amore per se stessi. Semmai lo si è avuto, trovato, coltivato…
E poi c’è Serenella, l’amica di Mia, suo grillo parlante. Ma anche una parte di sé capace di stare sopra le righe, dentro le righe e soprattutto tra le righe, di comprendere quello che non tutti sanno cogliere. Di capire che sono le emozioni a dettare le regole… E che il controllo di sé e degli altri spesso è solo un’illusione della mente… La logica è perfetta, tutto il resto no.
Ma come può una vita regolare diventare improvvisamente così scellerata? Ecco una bella domanda per tutti noi. A cui tutti siamo chiamati a rispondere… Grazie Mia per mostarci la tua via… Una, tra le infinite possibili… Grazie Paolo!

La coppia delusa e deludente

Nota in che modo, in che senso e in che grado il tuo partner è frustrante e deludente per te … E che cosa ci vuoi fare…

Che cosa ci vuoi fare? Che cosa ci vuoi fare!

Nota in che modo, in che senso e in che grado tu sei deludente per il tuo partner … E che cosa ci vuoi fare… e che cosa ci fa il partner…

Anche se attraverso i percorsi più svariati, legati alle diverse personalità individuali e alle diverse storie di vita, prima o poi, in terapia (come nella vita) la coppia deve confrontarsi con queste domande. La questione non è marginale o periferica né può essere scansata o accantonata come eventualità; è una certezza, a mio modo di vedere e per chi ci crede: una certa quota di frustrazione e delusione appartiene ad ogni rapporto interpersonale e ciascuno di noi, nella coppia sentimentale come in altre relazioni, “deve” imparare a “governare” questo “scarto” tra come sono le cose e come vorrebbe che fossero. Tra come sono le persone e come vorrebbe che fossero. Tra come è il partner e come vorrebbe che fosse. Tra come è stato il partner un tempo e come è attualmente il partner. Ricordando sempre, ed è fondamentale, che noi, a nostra volta, siamo “partner” di qualcun altro e quindi in qualche modo, senso e grado siamo fonte di frustrazione e delusione per l’altro.

Cosa ci vuoi fare? Cosa ci vuoi fare!

Come ho esposto più volte in questo blog se è vero (ed è vero se ci credi) che “la coppia è l’incontro tra due adulti e due bambini feriti” allora diventa fondamentale avere la saggezza, la sensibilità, la forza e il coraggio di saper distinguere, rispetto all’incontro dei due partner, anche e soprattutto nello scontro conflittuale, ciò che appartiene ai due bambini addolorati e ciò che appartiene ai due adulti che cercano di trovare la felicità attraverso l’esperienza di coppia.

Se il nostro vissuto, il nostro comportamento e il nostro modo di incontrare l’altro (il partner) sono governati dal “bambino ferito dentro di noi” (bambino addolorato, solo, rifiutato, abbandonato, colpevolizzato, arrabbiato, spaventato, confuso, deluso, frustrato) resteremo o rischiamo di restare “incastrati” sempre nella modalità “pretesa”, veicolando al partner un messaggio, esplicito o implicito, del tipo: “tu devi essere la compensazione dei vuoti e delle frustrazioni della mia vita. Tu devi essere quello di cui io ho bisogno”. Di fatto venendosi a configurare come una “modalità narcisistica di eliminare psicologicamente l’altro” che non viene riconosciuto né rispettato nella sua unicità di persona con i suoi bisogni, sentimenti, pensieri e valori, con la sua storia personale, i suoi drammi e le sue ferite. Un altro “reale” più o meno distante dall’altro “ideale” di cui il partner ha bisogno. L’esito è nefasto, per quanto non definibile a priori perché dipende anche dalla reazione soggettiva del partner, dal suo vissuto, dalla sua storia e dalla sua personalità.

In psicoterapia, la persona o la coppia viene aiutata a “riconoscere, accettare e integrare” la suddetta distinzione fondamentale: il bambino ferito viene riconosciuto, accolto, legittimato e curato nel suo dolore; l’adulto viene aiutato a “disinquinare la relazione adulta dalla proiezione infantile” per poter vivere la relazione reale di coppia in modo consapevole (invece che vittima di bisogni irrisolti e proiezioni dell’infanzia), responsabile (accettando e integrando una quota di frustrazione e delusione o chiudendo la relazione), maturo (assumendosi il carico delle conseguenze di ogni possibile scelta di unione o separazione) e rispettoso della propria ed altrui dignità.

Cosa ci vuoi fare? Cosa ci vuoi fare!

7 paure per creare relazioni infelici

Attraverso alcuni tipici modi di porsi nelle relazioni, le persone generano una profezia che si auto-avvera: attraverso il proprio comportamento una persona “può suscitare” nell’altro reazioni negative, emotive (rabbia, delusione, dolore, preoccupazione, angoscia, stress, tensione, ecc.) e comportamentali (ritiro, chiusura, distacco, critica, aggressione, finzione, ecc.) e finisce per creare o favorire proprio la situazione che temeva e voleva evitare.

Queste modalità relazionali, eco di angosce infantili e, nei casi più gravi, di esperienze traumatiche realmente vissute, sono comuni nella coppia, ma possono riguardare anche amicizie o relazioni di lavoro o anche relazioni tra parenti.

Alcune di queste paure e modalità relazionali caratterizzano certe persone in modo peculiare e rigido, ma tutti quanti noi ci possiamo trovare o ci siamo trovati ad avere una o più di queste paure con i connessi atteggiamenti relazionali, più o meno disfunzionali.

Ovviamente un contributo fondamentale all’evoluzione della relazione viene dato anche dall’altra persona che può reagire in tanti modi, per come pensa, per la sua storia e per i suoi meccanismi relazionali. Comunque, nell’incontro con l’altro, chi si approccia con queste paure tende a orientare la relazione in un certo modo che può esitare in insoddisfazione reciproca e rottura del rapporto.

  1. Quando hai costantemente paura di essere lasciato, di perdere la persona. Sei completamente insicuro della relazione, la vivi con estrema instabilità e precarietà, vivi l’altro come inaffidabile e pronto a lasciarti in ogni occasione. Alla continua ricerca di rassicurazione e controllo, finisci per creare un clima relazionale affettivo pesante, angosciante, possessivo, soffocante. L’altro può davvero chiudere la relazione con te perché non ce la fa più a sopportare questo clima emotivo in cui tu hai continuo bisogno di essere rassicurato rispetto alla presenza dell’altro.
  2. Quando hai costantemente paura di non essere veramente amato e apprezzato. Si tratti di una relazione di coppia o di un’amicizia, di una relazione professionale o di altro tipo, resti sempre con un senso di insoddisfazione, vuoto, carenza d’affetto e di approvazione. Con diverse strategie, cerchi la conferma di essere importante per l’altra persona, ma questa sensazione di pienezza è di valore non arriva mai. L’altra persona non è mai come la vorresti o, meglio, per quanto la persona si sforzi di ascoltarti, esserti vicino, vedere le cose dal tuo punto di vista, comprendere i tuoi bisogni e desideri, resti sempre con la sensazione di frustrazione e delusione, di insoddisfazione e solitudine profonda. Puoi decidere di alzare il livello delle richieste che fai o, al contrario, smettere di chiedere, rinunciare a ciò di cui pure hai profondamente bisogno. Se la relazione continua resta comunque insoddisfacente per te e stressante per l’altro che, a sua volta, non si sente apprezzato qualunque sforzo faccia per soddisfare le tue esigenze.
  3. Quando hai costantemente paura di non piacere a causa dei tuoi difetti. Ti senti inferiore agli altri, sbagliato, inadeguato alla situazione, non all’altezza di portare avanti la relazione, non meritevole di attenzione e affetto. Eviti di mostrarti autenticamente per quello che sei (quello che pensi, quello che provi, quello che desideri) perché temi che se ti mostrassi nella tua “spontanea verità personale” l’altro ti giudicherebbe e rifiuterebbe. Imposti le relazioni sulla base di una tua estrema sensibilità ad ogni possibile rilievo critico proveniente dall’altro e finisci per sentirti, nella relazione, sempre sotto giudizio, in ansia, insicuro, alla ricerca del comportamento perfetto. La relazione, se prosegue, è piena di tensione reciproca e mancanza di spontaneità.
  4. Quando hai costantemente paura di essere fregato, da tutti, in ogni relazione, soprattutto in quelle più intime e importanti. Ti senti vittima degli altri che consideri approfittatori e malevoli, bugiardi e manipolatori, pronti a fregarti o a girarti le spalle, menefreghisti che non esiterebbero a metterti in condizioni difficili (danno, umiliazione, violenza, ecc.) pur di ottenere un loro tornaconto. Cerchi di difenderti dai presunti “nemici” e “cattivi”, ma finisci per creare un’aria di sospetto e diffidenza intorno a te, fino al punto di restare solo oppure ingaggiato in relazioni conflittuali o allontanato da veri “nemici” che non hanno desiderio di stare con te o addirittura manifestano la loro rabbia per come li hai trattati.
  5. Quando hai costantemente paura di non farcela senza un’altra persona affianco. Tendi a creare relazioni, soprattutto nella coppia, ma anche sul lavoro e con gli amici, in cui sei completamente “appoggiato” all’altro, “adesivo”, insicuro, incapace di esprimere una tua individualità ben distinta e separata. Assumi atteggiamenti passivi, dipendenti, quasi di impotenza di fronte alle situazioni quotidiane che “normalmente” richiederebbero di prendere decisioni e risolvere problemi. Tu senti di non farcela da solo e tendi continuamente a chiedere il sostegno, la presenza, l’aiuto e la rassicurazione da parte dell’altro. Nella coppia, molto spesso, anche il partner ha una sua disfunzionalità in quanto ha bisogno di stare con uno come te di cui prendersi cura come fossi un bambino o un malato. Al lavoro, prima o poi, incontri problemi nel momento in cui non riesci assolutamente a prendere alcuna decisione autonoma senza chiedere l’aiuto dell’altro. Inoltre, professionalmente cresci al ritmo di lumaca o addirittura di gambero nel senso che puoi diventare iper-esperto in pochissime cose ma non metti mai la testa fuor dal guscio. Gli amici ti vogliono bene, ma non ti stimano, quasi ti compatiscono, percependo il tuo infantilismo, la tua insicurezza che a volte è pesante da sostenere.
  6. Quando hai costantemente paura di confrontarti con la tua “normalità” e di dover essere “come gli altri”. È la paura profonda del narcisista che, per le sue insicurezze infantili, ha un bisogno assoluto di sentirsi “speciale” ed essere trattato come tale. Tendi allora ad improntare tutte le relazioni sulla tua presunta superiorità. Gli altri devono “onorarti” ed elogiarti per ogni tuo gesto, anche quello minimo; devono necessariamente pensarla come te; non riesci a metterti nei panni dell’altro fino al punto di capire che l’altro può avere una visione della vita, delle credenze e dei valori diversi dai tuoi. Per te devono valere regole che non valgono per gli altri. “L’altro non esiste”, chi se ne frega dei suoi bisogni e del suo punto di vista. Nella coppia hai un atteggiamento di “pretesa”, l’altro ti deve dare tutto ciò di cui hai assolutamente bisogno, senza se e senza ma, senza alcun limite realistico… Manchi di assoluto rispetto e non funzioni in base alla reciprocità che una relazione intima prevede: “quello che è valido per me deve esserlo anche per te”. Anche al lavoro, indipendentemente dal ruolo, per te “l’altro è solo un intralcio da eliminare”. Se sei un capo assumi atteggiamenti di assoluta prepotenza e prevaricazione. Se sei un subordinato (difficilmente accade in realtà) tendi ad assumere atteggiamenti di sabotaggio sul lavoro e modalità di relazione passive-aggressive (indirettamente provochi danni, disagi e guasti e ti poni in modo spregevole). Se sei un lavoratore autonomo, consideri la libertà un’assenza di regole piuttosto che la necessità di autoregolarsi in modo responsabile. In ogni relazione, spesso la tua pretesa è quella di non avere nessun limite da rispettare né frustrazione da tollerare né delusione da affrontare: il mondo dovrebbe essere ai tuoi piedi… per renderti felice. Come evolvono le tue relazioni? Una persona “dipendente” ti adora, ha bisogno di te (come tu di lei) della tua (presunta) sicurezza e del tuo potere, fino al massacro di entrambi. Chi deve avere a che fare con te suo malgrado (per lavoro o parentela) tende a restare il più possibile distaccato dal punto di vista affettivo, facendo buon viso a cattivo gioco. Gli altri… molto presto se ne vanno.
  7. Quando hai costantemente paura di deludere l’altro. Hai bisogno di essere approvato dall’altro altrimenti temi di essere “abbandonato” o non amato o non considerato. Leghi la tua autostima a quanto riesci a far contento l’altro che ti esprime la sua soddisfazione. Non ti esprimi in modo autentico, reprimi i tuoi bisogni e le tue emozioni; ti comporti in modo da soddisfare le aspettative che gli altri hanno verso di te (“sono come tu mi vuoi”) e finisci per dimenticare te stesso, chi sei e cosa vuoi veramente. Tendi a comportarti conseguentemente in modo da far piacere all’altro, soddisfi ogni suo bisogno a scapito dei tuoi, oltre ogni ragionevole limite; a volte ne anticipi bisogni e desideri allo scopo di ricevere le grazie dell’altro o di non suscitare le sue reazioni rabbiose e rifiutanti. Ti adatti al volere dell’altro fino agli estremi della sottomissione e del sacrificio di te stesso. Sei iper-controllato nell’espressione spontanea delle tue emozioni e dei tuoi desideri nella misura in cui ciò ti rende “ben voluto”. Ti lasci dominare, assoggettare, controllare dall’altro, non ti muovi senza la sua autorizzazione. Non sei semplicemente disponibile, sei “a disposizione”. Non sei solamente generoso, “sei martire e santo”. Apparentemente strutturi relazioni che vanno bene a te e anche all’altro, ma sotto le sembianze di un incastro complementare e armonico si nasconde tanta rabbia inespressa da parte tua, rabbia con te stesso per come ti fai trattare e con l’altro verso cui comunque non riesci ad esprimerti direttamente e chiaramente. Questa rabbia è una “bomba ad orologeria” pronta ad esplodere in forme di aggressività diretta all’esterno (comportamenti violenti, scoppi di rabbia incontrollata, aggressioni, passività sabotante, ecc.) o rivolta contro di te (disturbi psicosomatici, attacchi al corpo, comportamenti auto-sabotanti, dipendenze da sostanze, ecc.). Ti prendi cura dell’altro in modo così estremo… e chi si prende cura di te?

Ovviamente la persona che utilizza in modo rigido una o anche più di una modalità relazionale così problematica prima o poi sviluppa un grado elevato di sofferenza emotiva e relazionale, comportamenti problematici e sintomi psicologici. Quando arriva in terapia solitamente non è consapevole di questi suoi meccanismi, quello che riporta all’inizio è una sofferenza emotiva con sintomi fisici e/o di ansia e depressione o il vissuto di diversi problemi relazionali (relazioni interrotte, lunghi periodi di solitudine non desiderata, problemi sul posto di lavoro, conflittualità accesa in famiglia, ecc.).

Il lavoro terapeutico si organizza intorno agli obiettivi di:

  • comprendere il senso e le origini di queste modalità disfunzionali nelle relazioni
  • disattivare i meccanismi della profezia auto-avverantesi nei cicli interpersonali problematici.

Ritratto del narcisista

Il narcisismo è una dimensione psicologica che abbiamo tutti, più o meno sviluppata. In casi estremi può arrivare al disturbo di personalità, per tutti quanti noi è una modalità di pensiero e di azione e anche un funzionamento nei rapporti interpersonali.

Ciascuno di noi ha qualche tratto narcisista, più o meno potente nel condizionare il nostro modo di stare al mondo e nelle relazioni.

Circa ¾ dei narcisisti sono uomini: probabilmente il codice maschile, anche quello meno tradizionale, caratterizzato da aspetti aggressivi, competitivi e di scarsa empatia è in linea col funzionamento narcisistico. Ma anche le donne possono avere nuclei narcisistici mascherati, magari legati alla ricerca di valore personale attraverso la vanità o il prendersi cura degli altri, tipici del codice femminile, connessi spesso ad atteggiamenti vittimistici, lamentosi, di “martiri incomprese”.

Il narcisista è schiavo del bisogno di ammirazione, riconoscimento, specialità. Ricerca in modo compulsivo l’ammirazione per sostenere la sua autostima; di fatto è un secchio bucato che non si riempie mai… La ricerca costante di ammirazione, lodi e riconoscimenti rivela il bisogno di una corazza che copra un sentimento di profonda insicurezza. Indossa una maschera di (falsa) grandiosità che copre un senso di sé fragile e vulnerabile (più autentico, anche se quasi completamente inconsapevole).

Il narcisista appare egocentrico: tutto deve girare intorno a lui/lei. Si sente speciale, superiore, migliore e più importante degli altri. Non tollera ovviamente limiti e frustrazioni. In modo paradossale il suo limite è di non accettare di essere limitato. Quando le cose non vanno come vorrebbe, cerca di forzare il limite e come un caterpillar passa sopra agli altri oppure quando la realtà si ripropone frustrante entra nella modalità lamentosa ma sterile. https://wordpress.com/posts/linofusco.wordpress.com

Mostra un’autosufficienza compulsiva (“non ho bisogno di nessuno”) che in realtà è una difesa rispetto al bisogno anticamente tradito di accudimento. Finisce spesso per creare un circolo vizioso: il bisogno dell’altro diventa paura di un nuovo tradimento quindi diventa attaccamento distaccato (“ho bisogno di te ma non posso permettermelo”), che finisce per esitare paradossalmente di nuovo in solitudine, deprivazione, sfiducia, sentimenti di non adeguatezza, fino a non sentirsi veramente degno di essere amato.

Nelle relazioni pretende: le sue richieste sono di fatto imperativi, ordini che non contemplano la possibilità che l’altro dica no (“me lo devi”); se l’altro respinge una richiesta, il narcisista si sente rifiutato intimamente e reagisce quasi sempre in modo rabbioso. Diventa svalutante, critico, colpevolizzante, sprezzante nei confronti dell’altro che non sta al mondo per soddisfare i suoi bisogni…

Controllante e manipolativo, definisce le regole per gli altri, mentre lui non le rispetta. È arrogante e presuntuoso: o si fa a modo suo o niente. Spesso privo di rimorso e incapace di chiedere scusa.

A volte si mostra diffidente, sospettoso: se sei gentile lo stai fregando, se non sei gentile lo stai trascurando.

Spesso mostra tratti perfezionistici: ha standard molto severi verso sé (per sentirsi ok) e verso gli altri (disprezzati se non sono perfetti… secondo il suo ideale di perfezione).

Quando la realtà lo delude, si rifugia spesso in attività o sostanze, in modo auto consolatorio (varie forme di dipendenza).

Il narcisista ha due importanti deficit, di cui è sostanzialmente all’oscuro:

  1. Mostra un certo grado di “analfabetismo emozionale”. Non ha dimestichezza col suo mondo interno e conseguentemente regola la sua condotta su valori e scopi poco autentici, legati al “dover essere” piuttosto che a bisogni, emozioni e desideri realmente sentiti come propri.
  2. Non conosce la mente dell’altro, non riesce a mettersi nei panni dell’altro, non riesce a comprendere la posizione esistenziale dell’altro. Manca di empatia, di reciprocità, di vera intimità; l’altro è invisibile, un oggetto, non esiste come soggettività. Per sostenere la sua autostima è disposto a tutto, soprattutto è disposto ad “eliminare l’altro”: sguardo assente sul mondo dell’altro e incapacità di vedere il mondo anche dal punto di vista dell’altro.

Il narcisista adulto è un bambino ferito.

La ferita narcisistica nasce da bisogni primari insoddisfatti di attenzione, comprensione, cura, guida e dall’aver ricevuto, invece, in maniera eccessiva e incongrua, critiche, rimproveri, giudizi negativi feroci, svalutazione, disprezzo, freddezza, trascuratezza.

Alcuni narcisisti durante l’infanzia sono stati “viziati”, considerati dai genitori migliori degli altri, speciali; non gli è stato insegnato a rispettare regole e limiti né a tollerare frustrazioni. Da adulti credono che tutto gli sia dovuto.

Altri genitori, invece, sono stati iperprotettivi, hanno privato il figlio della possibilità di confrontarsi sanamente coi dolori e le frustrazioni della vita, impedendogli di cimentarsi con le difficoltà per apprendere abilità di cavarsela e una sua competenza sociale. Da adulti il bambino sano diventato narcisista dipendente crede che gli altri si debbano prendere cura di lui in un modo particolare: sottraendolo dal confronto con ogni possibile errore, fallimento e responsabilità.

Altri genitori, invece, hanno amato “condizionatamente” il loro figlio, caricandolo di aspettative di perfezione e sentimenti di inadeguatezza. Il bambino ha interiorizzato il messaggio: “vado bene se e solo se… soddisfo le richieste e le aspettative di mamma e papà”, quasi sempre aspettative ideali, perfezionistiche, impossibili. Di fatto il bambino ha vissuto uno stato di deprivazione emotiva in cui non hanno trovato spazio i bisogni di accudimento, non è stato visto per quello che era, ma solo apprezzato per quello che doveva essere. Non è stato aiutato a scoprire le proprie inclinazioni, ma solo appesantito dalle proiezioni dei voleri/valori genitoriali (spesso originate da frustrazioni degli stessi genitori). Da adulto crede di sentirsi ok (amato e stimato) “se e solo se” persegue mete grandiose, aspettative ideali, missioni impossibili… ma i suoi traguardi riempiono un secchio sempre bucato. Non si fiderà di nessuno, vorrà prendersi cura di sé da solo, ma per sentirsi bene dovrà essere perfetto!!!

Il narcisista ferito divenuto adulto è sensibile ad ogni critica o errore o mancato riconoscimento o semplicemente al fatto che l’altro manifesti un punto di vista non conforme al proprio. Ma tende a nascondere la sua ferita, la sua fragilità: con atteggiamenti sprezzanti e manipolativi; alla ricerca di approvazione per mete grandiose ostenta grandiosità e onnipotenza come difesa dal senso di vulnerabilità (forma “manifesta”) o nasconde la propria vulnerabilità attraverso l’evitamento dei contatti interpersonali (forma “coperta”). Di fatto entrambi le forme di narcisismo evitano il contatto autentico e intimo con sé e con l’altro.