La via della terapia

Le persone che arrivano a chiedere un aiuto terapeutico sono in qualche modo e misura insoddisfatte di come sta andando attualmente la loro vita. Possono avere un problema di lavoro o un momento difficile nella relazione di coppia, possono soffrire di solitudine e avere difficoltà a trovare un partner; possono avere un problema di salute oppure aver subito un lutto importante. Alcuni raccontano vissuti di scarsa autostima, fallimento e difficoltà a realizzare un progetto, altri presentano problemi di dipendenza affettiva o non riescono ad avere amici oppure problemi di dipendenza da sostanze o altri tipi di dipendenza (internet, pornografia, gioco d’azzardo). Solitamente, all’inizio, le persone riferiscono manifestazioni di ansia e depressione, sensazioni di “esaurimento” e perdita di vitalità sotto le quali si nascondono (o si rivelano) i suddetti problemi legati ad una o più aree di vita. Qualcuno arriva a chiedere aiuto perché sente di aver smarrito la retta via: “non so più chi sono e cosa voglio veramente”.

Quali che siano i problemi portati in consultazione, la persona riporta sentimenti spiacevoli, emozioni dolorose, pensieri negativi e chiede di eliminarli. Comprensibilmente vuole risolvere i problemi e allontanare il dolore da essi creato. Solo che il mondo interno, la mente, funziona diversamente dal mondo esterno in cui quotidianamente ciascuno di noi risolve problemi passando da una situazione insoddisfacente ad una migliore.

La mente funziona in maniera contro-intuitiva: devi fare spazio al dolore affinché si esaurisca la sua carica di sofferenza, devi accettare la situazione per iniziare a cambiarla. Spesso succede che i nostri tentativi di risolvere il problema lo amplificano secondo un circolo vizioso che alimenta la sofferenza invece che ridurla. Hai paura del giudizio degli altri? Tendi ad evitare persone e situazioni sociali varie, ma così facendo aumenti la sensazione che gli altri abbiano l’idea di te come uno “strano” o la sensazione di non essere tra i più simpatici. Hai paura di trovarti in mezzo a tante persone? Bevi per abbassare l’ansia, fino a quando diventi dipendente dall’alcol, con annessi e connessi, mentre l’ansia ritorna comunque. Vivi una situazione di tensione sul posto di lavoro ma hai paura di tirare fuori ciò che pensi e senti, solitamente rabbia, perché non sai come andrà a finire? Tieni tutto dentro, oggi, domani e pure dopodomani fino a quando finisce che “scoppi”: vieni assalito da qualche disturbo psicosomatico (gastrite, mal di testa, dolori articolari, fiacchezza, irritazioni cutanee, ecc.) o finisci al pronto soccorso con la paura di un attacco cardiaco ma ti dicono che è “solo un attacco di panico” o ci mandi qualcun altro al pronto soccorso perché la tua “sana” rabbia è esplosa in un comportamento violento.

In terapia si lavora per aiutare la persona a rendersi conto che:

  • i sintomi così disturbanti e fonte di sofferenza arrivano per comunicarci che qualcosa nella nostra vita non va e dobbiamo metterci mano (metterci in discussione);
  • le soluzioni che finora abbiamo adottato non hanno funzionato;
  • i sintomi non vanno soppressi, ma vanno ascoltati, interrogati, compresi;
  • il dolore dei sintomi esprime emozioni non (ri)-conosciute e non espresse che vanno individuate;
  • le emozioni più importanti sono paura, rabbia, tristezza, le altre fanno parte di una di queste tre famiglie;
  • ogni emozione è sana e utile in quanto esprime qualcosa di noi in rapporto con gli eventi che viviamo e le cose che ci accadono;
  • il modo di esprimere le emozioni può essere più o meno adeguato, sano, utile e funzionale;
  • ad ogni emozione corrispondono uno o più bisogni importanti che attualmente sono insoddisfatti;
  • individuati i bisogni è fondamentale definire le azioni che noi dobbiamo compiere per tentare di realizzarli;
  • non esiste un unico modo per ottenere ciò che desideriamo, alcune strade sono più agevoli, altre sono più impervie;
  • ogni scelta ha un prezzo da pagare: possiamo scegliere di fare qualcosa di nuovo per realizzare un nostro bisogno o desiderio e possiamo anche scegliere di continuare a stare nelle stesse condizioni, facendo quello che abbiamo sempre fatto;
  • quando cominciamo ad esprimere le emozioni e a mettere in atto le azioni necessarie per soddisfare i nostri bisogni dobbiamo anche saper affrontare la frustrazione (non tutto va come vorremmo, ostacoli e impedimenti sono sempre all’angolo) e la delusione: spesso gli altri sono diversi da come noi pensavamo e volevamo; noi siamo responsabili dei nostri comportamenti, ma non abbiamo il potere di cambiare le altre persone. E nemmeno possiamo pretenderlo!!!

Alcune volte riusciamo a percorrere fino in fondo questo processo di consapevolezza che ci porta a mettere in atto le azioni utili ad ottenere ciò che vogliamo. Altre volte, anche se abbiamo chiara la situazione, non riusciamo ad agire efficacemente: conosciamo i nostri pensieri e le nostre emozioni, sappiamo cosa vogliamo e cosa dovremmo fare per arrivarci, ma non riusciamo a mettere in atto i comportamenti necessari a soddisfare i nostri bisogni. Siamo bloccati da paure profonde che hanno origini antiche nella nostra storia personale, che appartengono al “bambino ferito” che ci portiamo dentro e di cui dobbiamo “prenderci cura”. La situazione attuale ci riporta a quando eravamo bambini (o poco più che bambini) e incontrammo per la prima volta la paura di agire. In terapia, ci si riconnette a quel bambino, in quel tempo, in quella situazione, per “sbloccare” quelle paure… Con un sentimento di auto – tenerezza verso il bambino che siamo stati, che abbiamo dovuto essere e che vive ancora dentro di noi ad influenzare l’esperienza emotiva dell’adulto che siamo…

Essere e dover essere

La relazione genitori-figli è il modello di tutte le future relazioni fiduciarie, orienta il modo in cui la persona tenderà a creare legami e a governare le relazioni interpersonali.

Quando siamo piccoli ci affidiamo inevitabilmente all’adulto che si prende cura di noi. Il bisogno del piccolo è di essere amato incondizionatamente, senza se e senza ma. Il piccolo implicitamente chiede all’adulto di essere all’altezza delle sue aspettative di fiducia che si sostanziano fondamentalmente nella richiesta inconsapevole: “riconoscimi e accettami per quello che sono, unico e irripetibile, degno d’amore e stima a prescindere” (amore e accettazione incondizionati). “Aiutami a crescere, insegnami a stare al mondo, ad essere autonomo nella testa e nel cuore, ad essere felice”. “Dammi regole e modelli, orienta il mio comportamento, insegnami il bene e il male, ciò che è giusto e sbagliato, buono e cattivo, mentre accogli totalmente il mio modo di essere”. “Aiutami ad essere autonomo e anche ad affidarmi agli altri, a creare legami”.

Le ferite, con cui faremo i conti per tutta la vita, si creano quando il genitore “tradisce” queste aspettative implicite e comincia a proporre modelli e regole che non riconoscono e non accettano l’individualità, la giudicano, la disapprovano, la svalutano, la colpevolizzano, la mistificazione.

Le ferite del resto sono inevitabili. Il mestiere di genitore è veramente il più difficile del mondo: quanto sono elevate le aspettative di “come dover essere genitore” capace di rispondere ad una richiesta di fiducia assoluta? Dove sono i confini della fiducia e quindi del tradimento? Quanto la richiesta è di essere un genitore perfetto? Non solo: ciascun genitore è stato a sua volta figlio e porta dentro le personali ferite del bambino che è stato.
In situazioni “normali” i genitori agiscono in buona fede con l’idea di educare il figlio secondo valori e principi sani e buoni. Purtroppo la buona fede non immunizza dagli errori, molte scelte sono fatte “per il bene del figlio”, ma incapaci di “guardare” con attenzione i bisogni di chi hanno davanti, ancora imbrigliati nel proprio passato del figlio che sono stati e dei genitori che hanno avuto.
Il genitore esterno reale concreto che, attraverso rimproveri, disapprovazioni, critiche, ha tradito le aspettative di fiducia del figlio, gradualmente diventa genitore-giudice interno, presentandosi a sua volta con un certo grado di severità, rimbombando nel mondo interiore con una voce gigantesca: NON SEI COME DOVRESTI ESSERE, NON FAI QUELLO CHE DOVRESTI FARE. Un Giudice Interno che per tutta la vita continuerà a chiedere un dover essere spesso dai confini illimitati e confusi … per cui alla fine “sentiamo che non va bene mai… che non siamo mai abbastanza!!!”.

In nome dell’amore-accettazione di cui ha bisogno, il bambino arriva al tradimento di se stesso e ad un grado, più o meno massiccio, di compiacenza e falso sé: “devo essere come vogliono i miei genitori”. “Se non faccio ciò che li rende felici e tranquilli non mi ameranno più”.

Nel vissuto del piccolo, il prezzo da pagare di una coerenza pura, ideale alla propria autenticità sarebbe l’impossibilità di un abbraccio accogliente dell’altro… la solitudine, il non sentirsi amati. Inconcepibile per il cuore di ogni umano. Sicuramente non possibile per il bambino piccolo e indifeso che ha bisogno di un adulto che lo conduca con amore verso la vita.

Si crea in questo modo un circolo vizioso: il piccolo “chiede” al genitore di essere perfetto e a sua volta il genitore “chiede” al figlio di essere perfetto secondo regole del dover essere che sfuggono a una “realistica” definizione e finiscono inevitabilmente per essere “irrealistiche”, “irraggiungibili” (una missione impossibile). Si viene a creare, in tale dinamica, un terreno fertile per la frattura della fiducia, per le ferite interne da una parte e per sentirsi dolorosamente imperfetti dall’altra.

In terapia ci si trova prima o poi a fronteggiare il giudice interiore. A seconda della propria storia personale, il lavoro col giudice sarà più o meno importante, faticoso e profondo. Come con i nostri genitori reali dobbiamo imparare a riconoscere gli aspetti positivi del giudice: ci guida, ci orienta, ci pone sani limiti per confrontarci con la realtà e per questo possiamo essergli grati. Del resto può essere molto severo, rigido, punisce e pretende l’impossibile. Per questo possiamo arrabbiarci col giudice perché ci sentiamo pressati a corrispondere alle sue aspettative, perché temiamo di perdere la sua fiducia, stima e amore se non facciamo sempre ad ogni costo quello che pretende da noi. Se non ci adeguiamo alle sue pretese il suo giudizio è spietato e ci sentiamo rifiutati, abbandonati, non amati. Oggi come ieri la lotta è la stessa, tra autenticità e dover essere…
Gratitudine e rabbia ci aiutano a ridefinire la persona che vogliamo essere oggi, quanto vogliamo mantenere e valorizzare di ciò che ci hanno trasmesso, quanto vogliamo scartare e lasciarci alle spalle perché non va più bene per noi.
La terapia aiuta a diventare nuovi genitori di se stessi…

Figli della propria famiglia, tra lecito e proibito 

La famiglia definisce ciò che è buono e ciò che è cattivo, il valore e il disvalore, ciò che è lecito e ciò che è inaccettabile, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, premiato o punito, definendo e determinando il mondo interno della persona che vi appartiene. Ad esempio, a parità di comportamento, in una famiglia si è cocciuti, in un’altra si è fermi di carattere; creativi o perditempo, esuberanti o disturbanti, teneri o ambigui, ecc.. Per alcune persone, cresciute in uno specifico contesto familiare e culturale, “è sbagliato” chiedere, soddisfare i propri bisogni, manifestare affetto, ecc.. Per altri “non si deve” parlare ad alta voce, esprimere le proprie emozioni, mostrare le propria fragilità, ecc.. Per alcuni un certo comportamento o atteggiamento è un pregio e un valore da coltivare, per altri lo stesso comportamento è un difetto da nascondere o un sintomo di perversione.

Ogni famiglia è portatrice/creatrice di norme e di forme ovvero definisce il modo in cui una persona e una famiglia “devono” funzionare e che direzione dare alla vita e alle relazioni. E questo è un processo normale e ineliminabile, fa parte del processo di socializzazione, della trasmissione di cultura e tradizione e del più generale processo di educazione e sostegno allo sviluppo della personalità dei singoli appartenenti a quel gruppo familiare.

I problemi nascono quando queste norme e queste forme “non guardano” gli individui, sono rigidamente imposte e trasmesse ai membri della famiglia senza tener conto delle specificità dei singoli, senza guardarne i bisogni, senza ascoltare la voce delle diverse posizioni soggettive che compongono lo stesso gruppo familiare. Allora in ogni famiglia alcuni sentimenti sono leciti, altri sono da bandire, alcuni pensieri si possono avere, altri sono negativi, certi comportamenti sono consentiti, altri sono assolutamente censurati. Molte volte l’adulto deve “acquisire” il permesso (“non ricevuto” da bambino) di pensare, di sentire e di agire in maniera autentica e di esprimere i sentimenti in precedenza nascosti per timore del giudizio e della punizione.

Come cresce una persona all’interno della sua famiglia? La crescita è un processo di adattamento alla realtà cui apparteniamo, necessario alla sopravvivenza e alla salute. Ognuno compie questo percorso nel modo migliore che gli è concesso, facendo le migliori scelte possibili in quel contesto, tra costrizioni e libertà, permessi e divieti, sicurezza-protezione e rischio della solitudine.

Da piccoli siamo vulnerabili e dipendenti, incapaci di sopravvivere senza le figure adulte di riferimento. C’è il bisogno di nutrimento e il bisogno di essere visto, stimolato, riconosciuto. Per vivere il bambino ha bisogno di “carezze” ovvero di affetto, amore, approvazione, stima, riconoscimento (Tu esisti), dello specchio dell’altro, mai dell’indifferenza (Tu non esisti). Quando siamo piccoli, i grandi ci appaiono e realmente sono la fonte della nostra soddisfazione o frustrazione, felicità e infelicità. Hanno un potere straordinario. Dobbiamo rendere il mondo comprensibile e prevedibile, in qualche modo controllabile e tranquillizzante e dobbiamo trovare una strategia di sopravvivenza per soddisfare i nostri bisogni e desideri. È importante acquisire alcune certezze e chiarezza su chi siamo, chi sono gli altri, come vanno le cose, come funzionano le relazioni, cosa succede come conseguenza di un certo comportamento. La prevedibilità è rassicurante, l’incertezza mette paura.  Il bambino “piccolo” di fronte agli adulti “grandi” (genitori, nonni, insegnanti, ecc.) ha bisogno di piacere loro per essere amato, stimato e protetto. Impara presto quali sono le cose che riscuotono successo e approvazione in chi si prende cura di lui e comincia a regolare il suo comportamento di conseguenza, in base alle richieste esplicite o implicite che avverte nei grandi che lo possono proteggere.

Il “contenitore del proibito” comincia a riempirsi man mano che il bambino si adegua ai messaggi diretti o indiretti, chiari o ambigui che le sue figure significative gli mandano su ciò che è buono e ciò che è disapprovato, proibito o permesso, gratificato o punito, ciò che è consentito o vietato.

“Dietro ogni malattia c’è il DIVIETO di fare qualcosa che desideriamo oppure l’ordine (OBBLIGO) di fare qualcosa che non desideriamo. Ogni cura esige la disobbedienza a questo divieto o a quest’ordine. E per disobbedire è necessario abbandonare la paura infantile di non essere amati; vale a dire di essere abbandonati. Questa paura provoca una mancanza di coscienza: non ci si rende conto di quello che si è davvero, cercando di essere quello che gli altri si aspettano che noi siamo. Se si persiste in questa attitudine, si trasforma la propria bellezza interiore in malattia. La salute si trova solo nell’autentico, non c’è bellezza senza autenticità, ma per arrivare a quello che siamo davvero dobbiamo eliminare quello che non siamo. Essere quello che si è: questa è la felicità più grande” ( Alejandro Jodorowsky).

La terapia è un modo per rovistare in quel contenitore e recuperare ciò che ci rende più vitali e allineati alla nostra natura. Per imparare da adulti ad assumersi la responsabilità di cosa portare in soffitta o in cantina e cosa invece mantenere a disposizione del proprio vivere quotidiano. 

Interrogare gli attacchi di panico

Gli attacchi di panico sono manifestazioni estremamente diffuse a livello sociale. La persona che soffre di panico vive un’esperienza soggettiva devastante dal punto di vista psicologico e fisico. L’attacco di panico si è presentato come paura di morire, di perdere il controllo, di impazzire, di non essere più se stessi. Successivamente al primo (a volte unico) attacco di panico, la persona comincia ad aver paura di risperimentare quella paura originale e finisce per organizzare il suo comportamento intorno a massicci e progressivi evitamenti di situazioni, luoghi, persone. La vita diventa estremamente limitata e insoddisfacente. La depressione fa capolino per lo stravolgimento di vita che la persona subisce.

Quando la persona arriva in terapia sta portando un’intera esperienza di vita segnata dal panico. Ovviamente la sua richiesta è di “guarigione”, di eliminazione del sintomo e della sofferenza.

Ogni approccio terapeutico ha un suo modo di concepire e affrontare il panico, più o meno condiviso e integrabile con altri approcci. La ricerca scientifica va nella direzione di validare maggiormente alcuni approcci (cognitivo-comportamentale, strategico breve, integrazione della farmacoterapia) focalizzati primariamente sulla riduzione sintomatica, anche se poi in questi “casi risolti” sono frequenti “spostamenti” dell’area della sofferenza, per cui una persona riduce certi aspetti sintomatici sicuramente invalidanti solo che la sua qualità di vita migliora in minima parte sul piano affettivo e interpersonale. A quel punto appare necessario integrare altri interventi terapeutici che, oltre alla riduzione sintomatologica, invitino ad un lavoro su di sé a livello esistenziale, relazionale.

La persona assediata dal panico ha una visione del mondo come pericoloso e un senso di sé come debole e incapace di affrontare le potenziali esperienze minacciose; focalizza e ingigantisce esperienze e scenari catastrofici immaginati, ha difficoltà a dare la giusta rilevanza alle esperienze che vanno in una direzione contraria al pericolo. Tipicamente il panicato manifesta un certo grado di incapacità a “leggere” le proprie emozioni; in particolare, le sensazioni fisiologiche dell’emozione “paura” (tachicardia, sudorazione eccessiva, rossore, tremori, mancanza d’aria, ecc.) le interpreta in modo distorto: non come segnali del timore che qualcosa accada, ma come prova che tale terribile minaccia sia proprio in corso. In tale quadro, la persona avvolta e stesa dal panico interpreta come gravemente minaccioso per la propria sopravvivenza ogni evento o stimolo in grado di attivare il funzionamento neurovegetativo. Mantiene un’osservazione ossessiva di controllo sulle proprie sensazioni fisiche e psichiche e interpreta ogni movimento interno ed esterno come minaccia potenziale.

La persona panicata adotta comportamenti che ricercano rassicurazione e di fatto finiscono per alimentare il vissuto di insicurezza e le credenze di auto-svalutazione e vulnerabilità di fronte a qualcosa di insormontabile. Ogni tentativo di raccogliere fonti di sicurezza esterne finisce per confermare un vissuto di sé incapace di governare da solo il proprio stato, la propria vita.

La persona in preda al panico, con l’obiettivo di non risperimentare la paura di perdere il controllo e morire, organizza la sua vita sull’evitamento. Ma ciò non garantisce di fatto una sensazione di reale rassicurazione (nucleo centrale dell’ansia patologica rispetto all’ansia “normale” in cui la persona riesce a trovare e utilizzare fonti di rassicurazione) e finisce solo per restringere il proprio spazio vitale ed espressivo.

La terapia può aiutare la persona a cercare qualcosa di più del pur legittimo desiderio di eliminare il sintomo. La persona può essere guidata a superare la cura del sintomo per imparare prendersi cura di sé, non solo eliminare il disagio e la limitazione, ma farsi carico in toto delle proprie angosce quotidiane, di come si sta affrontando la vita, di quali scelte stanno determinando il proprio malessere e di quali altre possibilità ci sono per creare una vita veramente calata sui propri bisogni e valori.

È possibile allora portare il paziente a sviluppare ed elaborare una lettura diversa sul senso dell’esperienza panico. Un modello di lettura simbolico-relazionale-esistenziale valido per gli attacchi di panico e, più in generale, per le forme del mal-essere psichico.

L’attacco di panico, così come ansia e depressione, altre etichette diagnostiche di cui si fa un ab-uso “troppo generalizzato e generico” (dagli studi dei medici di base fino alla diffusione nei mass media), richiamano l’importanza di un atteggiamento di decodifica del “messaggio espresso dai sintomi”. Sono segnali del mal-essere di una persona, espressioni del suo modo di condurre la vita di sofferenza, disagio, limitazione e perdita di creatività e vitalità.

L’attivazione fisiologica del sistema nervoso autonomo ha un corrispettivo specifico nella formazione dei sintomi che appartengono all’esperienza (sensazioni soggettive vissute) del panico e questi appaiono fenomeni simbolici rispetto al mondo affettivo e relazionale della persona.

Il messaggio “esistenziale” fondamentale del mal-essere è: “guarda che qualcosa nella tua vita non va, qualcosa nella tua vita va messo in discussione, qualcosa nella tua vita va modificato”.

Il panico segnala ed esprime una crisi del proprio modo abituale di essere, di stare al mondo e nelle relazioni, richiama alla necessità di un superamento di sé, quindi invita a seguire le opportunità che la crisi contiene, gli elementi di “rottura” per “re-impostare” la direzione della propria vita.

Il panico è un richiamo alla propria liberazione: inizialmente può sembrare solo portatore di sofferenza, di fatto offre l’indicazione di una o più strade percorribili verso un rinnovato ben-essere, per uscire fuori da gabbie e prigioni auto-imposte, oltre vecchie norme e forme di sé, oltre vecchi ruoli, oltre vecchi imperativi interiorizzati sul dover essere e dover fare.

I sintomi tipici dell’attacco di panico, come riconosciuti e definiti a livello internazionale, offrono spunti esplorativi ad uno sguardo attento alle dinamiche affettivo-relazionali.

La sensazione generale di chi vive il panico è di un attacco sconvolgente di paura. La paura è l’emozione che sperimenta ogni organismo animale di fronte alla percezione di un pericolo o di una minaccia e prepara ad affrontare quel pericolo allo scopo di favorire la sopravvivenza e l’adattamento. Come tutte le emozioni, la paura è associata all’emergere di un bisogno fondamentale rispetto a cui funziona da segnale per attivare i comportamenti necessari a rispondere a quel bisogno. La paura attiva un bisogno di protezione a cui l’organismo risponde con una reazione di attacco o fuga rispetto al pericolo e con la ricerca di vicinanza ad una figura di attaccamento e protezione.

Da un punto di vista simbolico-relazionale, attraverso l’uso di domande specifiche che focalizzano l’attenzione su aspetti di vita sensibili, il terapeuta guida il paziente ad adottare uno sguardo esplorativo sul suo mondo interno (pensieri, emozioni) e su come gestisce attualmente la sua vita quotidiana (relazioni, famiglia, lavoro, tempo, ecc.). Ad esempio, si accompagna la persona che soffre di “paura della paura” con queste domande: di cosa ho paura in questo momento della mia vita? Cosa mi stressa? Cosa rappresenta una minaccia per me nelle mie relazioni attuali? Quali richieste eccessive sento di dover fronteggiare, al lavoro, in famiglia, in altri ruoli o situazioni? Quali mie relazioni rappresentano un carico di richieste e prestazioni “al limite del possibile”?

Per rispondere a queste richieste del quotidiano, del momento di vita attuale o recente (richieste altrui e richieste “auto-imposte”) l’individuo deve attivarsi, ha bisogno di energia; il suo corpo si attiva attraverso un aumento della frequenza respiratoria che garantisce l’ossigeno necessario: la sensazione soggettiva è la “fame d’aria”, quasi un senso di soffocamento. Quali miei spazi vitali sento “soffocati” attualmente? Quali relazioni sono “soffocanti” per me oggi? In quali strettoie mi sono messo nei vari contesti di vita quotidiana?

La percezione di pericolo attiva nell’organismo una necessità di “fronteggiare” a cui di fatto non corrisponde una minaccia reale (come poteva esistere per i nostri antenati). Le “sfide” della vita, gli “alti standard” che poniamo a noi stessi richiedono quindi un’attivazione psicofisiologica a cui non corrisponde una reale possibilità di “espressione e scarica”: da cosa mi sento pressato? In che cosa sto perdendo l’equilibrio? In che cosa sono disorientato e smarrito?

Le aumentate necessità di ossigeno dell’attacco-fuga attivano il funzionamento del cuore che deve aumentare i carichi di lavoro per pompare il sangue con maggiore frequenza e intensità per garantire un afflusso significativo dell’ossigeno ai distretti corporei interessati al maggior fabbisogno, in particolare i muscoli periferici per essere pronti alla competizione e il cervello per governare adeguatamente il comportamento: il correlato fisiologico di questo lavoro extra del cuore è la sensazione di tachicardia, le palpitazioni. In che cosa e da che cosa mi sento oppresso e costretto? Cosa vorrebbe uscire e non riesce ad uscire? Cosa non mi sto permettendo in questo momento?

Ancora seguendo le vie simboliche indicateci da altri sintomi del panico: in che modo sto perdendo contatto con la realtà? Con la realtà delle piccole grandi cose del quotidiano? In che modo tutto questo sconquassa il mio senso d’identità, ciò che so di me stesso e chi credo di essere? In che modo stanno traballando alcune mie certezze? In che modo sono sollecitato a cambiare alcuni miei atteggiamenti fondamentali? Sollecitato da chi? Da quali mie esigenze emergenti? In che modo sto rivisitando o devo rivisitare la gerarchia dei miei bisogni, delle mie priorità, dei miei valori?

Con chi devo “combattere”? Da chi e da cosa devo “fuggire”? Quanto sto indossando o ho indossato una maschera di efficienza che non corrisponde ad una sensazione interna di sicurezza e solidità? In che modo sto indossando una maschera che non corrisponde ai miei moti interni più autentici e ai miei bisogni più importanti ora? Come sto “manipolando” le mie relazioni per apparire ciò che non sono?

Cosa non mi va giù? Cosa non riesco a digerire? Cosa mi crea tensione? Da quali pesi sono gravato? Da cosa sono appesantito? Di cosa è necessario che io mi alleggerisca? Cosa devo lasciare indietro? Cosa devo abbandonare per andare avanti in maniera efficace?

Quali sono i rami secchi che devo togliere dalla mia vita? Relazioni aride? Rapporti stantii? Ripetizioni sterili di situazioni e rapporti?

Cosa sto focalizzando in questo momento della mia vita? A cosa devo prestare veramente attenzione? Cosa mi mette in allarme? In che modo sono focalizzato su esperienze che distolgono la mia attenzione da cose veramente significative per il mio benessere? In che modo devo cambiare e ho paura di cambiare? Quali conflitti assalgono la mia esistenza ora?

In sintesi: di fronte a un pericolo reale, realizzato o incipiente, l’attivazione corporea è necessaria per approntare la risposta che garantisce la sopravvivenza e l’attacco o la fuga rappresentano le naturali azioni di sfogo dell’attivazione fisiologica. Il soggetto tendente al panico, invece, interpreta erroneamente, in senso catastrofico, le fisiologiche temporanee modificazioni dell’equilibrio psicofisico legate alle necessità di far fronte alle evenienze stressanti della vita. L’attivazione somatica non trova un reale pericolo da fronteggiare e resta “bloccata in se stessa” fino ad alimentare un circolo vizioso di amplificazione dell’attivazione fisica che sfocia nell’attacco di panico come sfogo necessario e utile per scaricare l’accumulo di energia e attivazione.

Che fare?

Seguendo un approccio integrato al mal-essere esistenziale del panico esistono diverse linee evolutive della cura, diversi ambiti di intervento sempre presenti, diverse aree di sé cui prestare attenzione:

  • cura dei sintomi: integrazione del farmaco se necessario, tecniche di respirazione e rilassamento, esposizione graduale alla paura e alle situazioni temute
  • relazioni di attaccamento primarie e rappresentazioni interne: lavoro sul copione di vita per “ri-scrivere” modi fondamentali di stare al mondo e governare se stessi nelle relazioni. Cura delle ferite antiche e recupero di un assetto di personalità adulto che sa stare nella realtà, consapevole dei propri valori e bisogni, responsabile di agire in base ad essi
  • cura e sviluppo dell’intelligenza emotiva: capacità di conoscere ed esprimere in modo adeguato le proprie emozioni
  • ristrutturazione del dialogo interno: pensieri disfunzionali e convinzioni limitanti
  • training di comunicazione efficace nelle relazioni: imparare a fare richieste e a dire no
  • approccio motivazionale focalizzato sull’azione: la persona è guidata più direttamente ad agire in maniera diversa dal solito, a modificare concretamente atteggiamenti, comportamenti e stili relazionali, a sperimentare specificamente nuove modalità di comportarsi.

Il panico come metafora del restringimento vitale ed espressivo richiama in generale ad un concetto trasversale ad ogni percorso di crescita: quando indossiamo certe “maschere” le nostre parti “tras-curate” reclamano soddisfazione. Noi siamo sostanzialmente conflittuali per cui ogni scelta prevede una soddisfazione e un “prezzo da pagare”, parti di noi soddisfatte e parti di noi a cui dobbiamo rinunciare. Queste parti “sacrificate” vanno comunque “curate”, dobbiamo prendercene cura anche perché in un modo o nell’altro, in una forma o nell’altra, con un certo grado d’intensità, più o meno imperioso, reclamano soddisfazione, chiedono di essere riconosciute, guardate, ascoltate, curate.

Infine, se è vero che il messaggio “esistenziale” fondamentale del mal-essere è “guarda che qualcosa nella tua vita non va, va messo in discussione, va modificato”, è, in particolare, vero che questo è un invito diretto alla persona a prendersi cura di sé: a chiedere aiuto e sostegno affinché qualcuno si prenda cura di sé. Al tempo stesso, è un invito alla responsabilità personale di mettere in discussione i propri assetti abituali, ad agire concretamente per modificare certi sentieri comportamentali, relazionali, affettivi.

L’Ombra e le maschere della vita quotidiana 

“L’Ombra e le maschere della vita quotidiana” è una metafora che spesso uso per leggere e scrivere insieme al paziente il suo piano di cura e soprattutto il suo progetto esistenziale. Il rapporto tra le parti “presentabili” e quelle “oscure” di sé offre al paziente una cornice per inquadrare il suo disagio e per sostenerlo nei suoi movimenti evolutivi.

“L’Ombra e le maschere della vita quotidiana” è un percorso.

L’Ombra, con la maiuscola, è un concetto cardine della psicologia analitica di Carl Gustav Jung. L’Ombra è il regno degli impulsi, dei desideri e dei pensieri più autenticamente umani e naturali. È tutto ciò che è nelle nostre potenzialità e che abitualmente non utilizziamo. L’Ombra è il contenitore del censurato e del rimosso, di ciò che è inaccettabile per la cultura e la società, per la famiglia e per il gruppo a cui apparteniamo. L’Ombra è sempre con noi, a volte è fonte di divertimento, spesso spaventa. È la faccia scura della luna, la nostra stanza segreta, non sempre facilmente accessibile. È il lato oscuro di ognuno di noi. È la notte, la parte nascosta. Racchiude i lati dolorosi, penosi e angosciosi, minacciosi ma anche, attraenti e affascinanti. È fonte d’inquietudine e potenzialmente di un’enorme ricchezza. È quella parte di noi che non ci siamo permessi di esprimere “per non deludere” chi elargiva nell’infanzia amore e protezione, per garantirci l’amore e la stima di chi ci ha cresciuto al prezzo però di rinunciare a parti vitali di noi stessi … Un tesoro a cui oggi possiamo imparare ad attingere.

L’Ombra può assumere forme diverse. Forme sane nella creatività vitale e nella gioia di vivere che si fa espansione di sé; forme malate nei sintomi, nei sentimenti di oppressione, nell’aridità emotiva, nel blocco progettuale.

L’Ombra è un richiamo di opposti, polarità in cui ogni estremo assume significato in relazione all’altro estremo: il pieno e il vuoto, il coraggio e la paura, la delusione e la gratitudine, il bene e il male, la vita e la morte.

Recuperare le parti nascoste di noi stessi non è un obbligo, ma certamente una possibilità.

Integrare l’Ombra dentro di sé vuol dire incamminarsi in un percorso verso territori inesplorati di sé: entrare in contatto con la propria profondità per comprender-sé e sperimentare nuovi modi e nuove forme di sé.

Le maschere della vita quotidiana sono le immagini di facciata, le abitudini radicate che ci proteggono e c’ingabbiano, prevedibili e limitanti, note e per ciò troppo aride rispetto ad un’espressione più spontanea e creativa di sé.

Toccare l’Ombra significa entrare in contatto con le proprie immagini di facciata per divenire consapevoli e padroni delle parti oscure di sé che da blocco della vitalità diventano spinte all’autorealizzazione e alla ricerca della propria unicità perduta.

Prendere coscienza delle proprie maschere vuol dire allora spingersi verso la ricerca di un modo di essere, di pensare, di sentire, di comportarsi più autentico rispetto alla propria complessità, alla propria unicità, ai propri bisogni e desideri, ai propri valori e inclinazioni. Un modo di essere tutto da inventare e che deve fare i conti con quello che abbiamo appreso in famiglia e, più in generale, nella storia delle nostre relazioni che hanno forgiato il nostro modo di essere, sentire, agire ed entrare in relazione.

Il viaggio dell’eroe

Alcune volte propongo al paziente un lavoro con la metafora del viaggio dell’eroe. In genere questo avviene quando la persona ha già fatto un lavoro importante su di sé, ha ridotto notevolmente la sofferenza legata ai sintomi, ha esplorato le fonti del suo malessere, ha messo a posto i pensieri più critici e regolato le emozioni fondamentali, in generale ha migliorato la sua qualità di vita, nelle relazioni, al lavoro, nella gestione del tempo, ecc. E pronto insomma per accedere ad un lavoro su di sé che va oltre la cura di una sofferenza, è una vera e propria ricerca spirituale.

Anche quando non propongo il viaggio dell’eroe in modo esplicito al paziente, il riferimento al viaggio eroico è sempre presente come filtro interpretativo del percorso di individuazione della persona.

Il viaggio dell’eroe è una traccia, una mappa, un percorso che prende spunto dal lavoro di Carol Pearson a sua volta ancorato al lavoro di Campbell sull’eroe nella mitologia occidentale e orientale e impostato sulla psicologia degli archetipi di Jung.

La letteratura, classica e moderna, come il cinema e ogni altra forma d’espressione artistica sono pieni di eroi in viaggio, di avventure “alla ricerca della verità”.

Il viaggio dell’eroe è il cammino di ciascuno di noi verso l’integrazione, l’individuazione e la riappropriazione di sé. Dura tutta la vita. È un ripetersi di passaggi, di crisi, di trasformazioni personali che definiscono la traiettoria unica della propria evoluzione. Verso la responsabilità consapevole del proprio destino. Oltre i condizionamenti interiorizzati e il rigido “io sono così … di carattere”. Oltre il copione da noi “scritto” precocemente e continuamente ripetuto. Verso la “creazione” della propria qualità di vita fondata su scelte consapevoli e responsabili. Lungo un itinerario soggettivo che conduce dalla dipendenza infantile, ferita e immatura, all’indipendenza adulta, consapevole e responsabile, fino all’interdipendenza della connessione profonda con il sé più intimo, con gli altri e al servizio del bene collettivo.

Il viaggio dell’eroe è una struttura metaforica che può essere descritta in diversi modi e ciascuna di queste rappresentazioni del viaggio comprende le altre: il viaggio non è un percorso lineare, si sviluppa piuttosto a spirale ritornando più volte in momenti e passaggi significativi.

Il viaggio dell’eroe attraversa 4 momenti:

  1. lotta col Drago
  2. liberazione della Principessa
  3. conquista del Tesoro
  4. edificazione del Regno.

Il viaggio dell’eroe si sviluppa in 3 fasi temporali:

  1. preparazione
  2. viaggio vero e proprio
  3. ritorno

Il viaggio dell’eroe si realizza attraverso l’equilibrio dinamico di 12 archetipi:

  1. Innocente
  2. Orfano
  3. Guerriero
  4. Angelo custode
  5. Cercatore
  6. Distruttore
  7. Amante
  8. Creatore
  9. Sovrano
  10. Mago
  11. Saggio
  12. Folle

Ogni fase prevede l’attivazione di specifici archetipi. Gli archetipi sono personaggi o figure interiori che intervengono in una o più fasi del viaggio a sostenere o anche ad ostacolare l’eroe. Sono immagini interiori ed universali che fungono da modelli guida a livello spirituale e comportamentale. Sono aspetti che mettiamo in gioco continuamente nella nostra vita, anche se in modo inconsapevole. Gli archetipi sono “energie universali”, modelli di comportamento che tracciano il copione di ciascuno di noi, mappe che orientano la nostra vita.

Ogni archetipo può essere più o meno attivo nella persona a determinare il suo vissuto e comportamento.

Sono dimensioni interiori, parti di sé, forze, energie, figure simboliche che fanno parte dei miti, come dei sogni e albergano nella personalità di ciascuno di noi, a livello di potenzialità più o meno espressa, manifesta, comunque come dimensioni interiori con cui prima o poi nella vita dobbiamo fare i conti, che dobbiamo incontrare, integrare.

L’avventura dell’eroe segue sempre una traccia: la separazione dal mondo precedente, l’iniziazione a qualche fonte di potere, il ritorno apportatore di vita (Joseph Campbell).

L’Eroe, insoddisfatto, deprivato, inaridito, è chiamato alla sfida verso il nuovo, ad andare oltre quello che è sempre stato e che ora è fonte di malessere. Sulla sua strada incontra il Drago. Il drago custodisce un Tesoro e una Fanciulla che deve essere salvata, una Principessa che deve essere liberata. Al ritorno dal viaggio l’Eroe può costruire il suo Regno.

Il Drago simboleggia il nostro lato oscuro, le nostre paure, le parti di noi non ancora integrate. Il salto nel buio. Il contatto profondo con le nostre emozioni più viscerali, i nostri bisogni più autentici, le angosce irrisolte. Rischiare di morire, per trasformarsi: dalla grande paura al grande cambiamento. Il Drago non è fuori di noi ma dentro: sono le nostre paure. Il Drago è lo specchio che ci rivela la nostra Ombra, le parti di noi che rifiutiamo, rinneghiamo, censuriamo. Il Drago, come i mostri dei bambini, esiste solo perché ne abbiamo paura. Il Drago è tutto ciò che sentiamo un problema, un disagio, una questione da risolvere: un conflitto di coppia, un problema al lavoro, una preoccupazione per la salute, scelte esistenziali che ci tengono bloccati perché continuiamo a ripeterle nonostante siamo consapevoli che ci fanno soffrire. Il Drago sono le difficoltà della vita, che sono sempre sfide e occasioni di crescita.

La liberazione della Principessa è il simbolo della conquista “interiore”, della liberazione dal vecchio, l’accesso alle parti di noi non ancora espresse, al nostro talento, alle nostre potenzialità. Il femminile dentro l’uomo, il maschile interno alla donna. Contatto e integrazione dell’altro da sé.

Il Tesoro rappresenta l’energia vitale, l’ampliamento di possibilità che si aprono dinanzi a noi quando abbiamo superato le nostre paure e ritrovato il sentiero autentico del nostro essere essenziale. La capacità di godere dei risultati raggiunti e dei conflitti interni risolti, delle parti integrate, di nuove consapevolezze e visioni di sé.

Il Regno è il nuovo assetto di vita, i nuovi presupposti su cui ora fondare le proprie azioni, le scelte nella vita quotidiana. E la condivisione profonda con gli altri, quasi una rivelazione che possa essere di nutrimento, stimolo e orientamento per l’intera collettività. E questo regno sarà in auge fino alla nuova crisi, fino al nuovo terremoto che richiamerà l’eroe ad un nuovo viaggio.

Lavorare col viaggio dell’eroe è uno dei modi più potenti per amplificare lo sviluppo personale. È una metafora molto fertile sia per affrontare i nodi più critici della sofferenza emotiva, sia come guida per la propria crescita personale, sia come riferimento per ogni strada che scegliamo di percorrere nella nostra vita: quando accettiamo una nuova sfida, quando rischiamo un nuovo progetto, quando esploriamo territori in precedenza tabù, quando rischiamo noi stessi nell’incontro con l’altro.