Dal sintomo al senso

Vita “stressante”, ritmi quotidiani frenetici, tempo che non basta mai, insoddisfazione in una o più relazioni personali e lavorative; crisi economica e criminalità, terrorismo internazionale e violenza domestica, varie forme di dipendenza e un senso di inadeguatezza dilagante (in diversi ambiti e ruoli della propria vita, ciascuno ha il proprio). “Mascheramenti” vari come modo per affrontare le proprie fragilità non riconosciute, perdita del senso di sicurezza, smarrimento di vecchi riferimenti valoriali non sostituiti da altri parimenti validi. Vite racchiuse in un selfie o in un like o in attesa del prossimo aperitivo. Chi più ne ha più ne metta… e dilagano ansia e depressione, ormai diffuse come il raffreddore.

Ansia e depressione sono diventate due “categorie sintomatiche” massicciamente usate soprattutto dai medici di base, dai medici non specialisti della salute mentale e, più in generale, dai non addetti ai lavori, dalla gente comune che contribuisce a diffondere sempre più, nell’immaginario collettivo, l’idea di un mondo di depressi e ansiosi.

E si arriva nello studio dello psicoterapeuta.

Arriva la persona con disturbi gastrici e ipocondria, quella con difficoltà di memoria e concentrazione, chi non riesce più a stare sul posto di lavoro o chi è rimasto senza amici e senza partner. Arriva la coppia che vuole recuperare il rapporto, la ragazza con problemi di sovrappeso, la donna con gli attacchi di panico, l’uomo (di solito spinto da qualcun altro) con problemi di alcol, di gioco d’azzardo o che abusa di sostanze. Arriva la persona con problemi di autostima e insicurezza, quello con vissuti di impotenza e fallimento, chi si vergogna e chi si sente in colpa. Arrivano persone che soffrono di un malessere generalizzato indefinito e chiedono di “stare meglio”, di capire ciò che sta succedendo nella propria vita e magari di apprendere abilità e strategie “per essere felici” o perlomeno per non soffrire troppo. Esistono, insomma, mille e una depressione, una o centomila ansie.

Con l’aiuto del terapeuta, le questioni critiche sono inquadrate in modo più specifico e articolato, al fine di andare oltre l’etichetta di malato ansioso e depresso, per rintracciare, in maniera chiara, il tipo di situazione presente e individuare il modo più efficace per affrontarla e superarla. Sempre più, inoltre, negli ultimi anni si presentano in terapia anche persone che chiedono di fare un “percorso di crescita personale”, chiedono di essere accompagnati in un viaggio di “sviluppo personale ed esistenziale”, chiedono di migliorare la comprensione di sé per migliorare la propria qualità della vita.

Ogni forma di malessere o disagio o richiesta “nasconde” e “rivela”, al tempo stesso, un “messaggio per la persona”, un messaggio che, decodificato, può fornire indicazioni fondamentali per affrontare e superare il momento critico o evolutivo che ha portato alla richiesta d’aiuto.

Preso atto della sofferenza specifica e di come si annida nelle relazioni della persona, nel suo modo di pensare di agire, si tratta di cogliere il senso del messaggio contenuto nel disagio per “tracciare e riprendere le linee evolutive dello sviluppo bloccato”, impedito, represso, che i sintomi stanno a segnalare.

Rintracciare ed esplorare i “nodi emotivi” che la persona presenta (dolore, rabbia, paura, tristezza, vergogna, preoccupazione, frustrazione, delusione, vuoto, smarrimento, ecc.) è un modo per togliere ai sintomi la fonte del loro (ri-)presentarsi.

Il malessere sintomatico è il modo in cui la persona comunica a se stessa e al mondo che c’è qualcosa nella sua vita che non va, che alcuni bisogni e parti vitali di sé stanno soffrendo eccessivamente, quindi è un richiamo a mettere in discussione il suo attuale assetto di abitudini di comportamento e di pensiero, il modo in cui la persona porta avanti la sua vita, le sue relazioni, i suoi affetti.

Capire il senso del sintomo vuol dire togliergli il motivo del suo esistere.

La terapia aiuta la persona a trovare il senso del sintomo per riprendere il senso e la direzione della sua vita…

Oltre l’etichetta stigmatizzante

Molte persone che arrivano in terapia portano con sé una diagnosi, alcune volte fatta da soli, via internet (sigh!), spesso fatta da qualche altro specialista consultato precedentemente o fatta dal medico di base (solitamente una generica “forma ansiosa e/o depressiva”). Se non hanno questa diagnosi, spesso è la prima cosa che chiedono. Cos’ho? Qual è il mio disturbo?
Per molte persone avere una diagnosi, rientrare in una categoria, è importante; li rassicura rispetto all’avere questa o quest’altra “malattia” e in qualche modo offre loro un certo grado di prevedibilità perché se sanno “quello che hanno”, sanno anche o dovrebbero sapere quale sia la cura appropriata.
Di fatto non è proprio così. Non è propriamente così che funziona la psicoterapia. La diagnosi può essere importante come riferimento, se fatta in modo opportuno. Resta comunque un riferimento. Nel campo psichico, molto più che in campo medico biologico, le diagnosi rappresentano grandi contenitori che vanno riempiti con la specificità della persona. Forse chi soffre di gastrite ha molti tratti in comune con tante altre persone che “hanno” la gastrite. In campo psicologico, due depressi possono essere molto differenti tra loro, così come due ansiosi, due ossessivi, due borderline, due dipendenti e così via. La specificità della persona, della sua storia, della personalità fa la differenza. Un’enorme differenza.
La psicoterapia si basa, più che sulla conoscenza delle caratteristiche della categoria diagnostica (spesso solo un’etichetta fuorviante), molto di più sul funzionamento specifico di quella persona nel suo ambiente di vita (famiglia, lavoro, amicizie, ecc.): i suoi modi di pensare, i suoi modi di interagire e reagire agli altri, i suoi modi di vivere ed esprimere le emozioni, i suoi modi di comportarsi, le sue abitudini tipiche, la sua visione del mondo e della vita, i suoi scopi e valori fondamentali. Su questi aspetti si concentra in maniera fondamentale il lavoro psicoterapeutico. Sull’aiutare la persona a “prendere dimestichezza col suo mondo interiore” (pensieri, emozioni, ferite, traumi, bisogni, desideri, progetti, sogni, ecc.), a conoscere le sue “abitudini” sane e insane, i suoi “punti di forza e le sue fragilità”, le sue risorse e i suoi limiti, in che modo l’ambiente materiale e affettivo in cui vive può essere di “sostegno” o di “ostacolo” alla piena realizzazione del suo progetto di vita.
Questa enorme differenza tra “etichetta giudicante e stigmatizzante” (solo parzialmente rassicurante) e “funzionamento specifico della persona nella sua unicità irripetibile” è fondamentale prima di tutto per il paziente che impara a conoscersi meglio, per imparare a guidare con maggiore “consapevolezza” la sua vita, ad agire con maggiore “responsabilità”, non in base ad una diagnosi o al nome di una malattia, come nemmeno in base al nome di tre o cinque caratteristiche della personalità (pigro, estroverso, brillante, irrequieto, cupo, entusiasta, ecc.), piuttosto in relazione ad una “conoscenza di sé più appropriata, fine, sottile e profonda”.

In lutto

Il lutto è l’esperienza che facciamo quando perdiamo qualcuno per noi importante. Per estensione è l’esperienza che viviamo ogni volta che perdiamo qualcosa per noi importante e vitale rispetto ai nostri valori, ai nostri scopi, ai nostri progetti di vita. Qualcuno o qualcosa di importante a cui difficilmente siamo o saremmo disposti a rinunciare. Ma, purtroppo, a cui dobbiamo rinunciare. E ciò lascia un vuoto difficile da colmare, un’assenza pressoché impossibile da sostituire nella maggior parte dei casi e dei vissuti delle persone.
Il lutto è un processo ed un percorso. È un processo che richiede di “fare i conti” psicologicamente (elaborazione di pensieri ed emozioni) e praticamente (affrontare le conseguenze concrete) con i cambiamenti legati alla perdita. Un percorso fatto di tappe e compiti, di “passaggi” che dobbiamo fare per dare un senso a quanto accaduto fuori e dentro di noi. Un movimento avanti e indietro, sopra e sotto, attraverso questi compiti e questi momenti. Non è un processo sequenziale definito e identico per tutti. È differente tanto quanto sono diverse le persone che si trovano ad affrontare il proprio dolore.
Dobbiamo vivere il lutto quando muore qualcuno di caro, quando ci separiamo da qualcuno, quando veniamo lasciati e anche quando siamo noi a lasciare. Se ci licenziano e a volte anche se siamo noi a cambiare lavoro. Se traslochiamo, anche quando la nuova destinazione sembra migliore. Quando invecchiamo, quando fisicamente non siamo più quelli di prima.

Tutto ciò che è perdita di qualcosa di importante e che riempiva la nostra vita o rappresentava un riferimento stabile ci porta ad un’esperienza di lutto.

Ma dobbiamo vivere
il lutto anche quando viviamo uno scarto tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo ottenuto (ad esempio, quando non vinciamo le elezioni o non superiamo un esame o non riusciamo a conquistare una persona che ci attrae o quando il nostro partner non è come vorremmo che fosse), ma anche uno scarto tra ciò che crediamo di essere e ciò che la realtà ci rimanda, scarto spesso doloroso perché a nostro sfavore con vissuti di fallimento e scarsa autostima.
Nella diversità di situazioni accomunate dal tema della perdita o dello scarto tra ciò che era e ciò che è, tra ciò che avrei voluto è ciò che è, alcuni elementi sono simili e ciascuna persona li vive con un’alternanza tutta personale, con movimenti tumultuosi e a spirale:
– all’inizio non riusciamo a credere alla perdita con senso di irrealtà e stato di confusione
– quindi cominciamo a sviluppare una graduale consapevolezza della realtà della perdita con associate emozioni di solitudine, paura, rabbia, sconforto, disperazione
– anche se la persona è sempre più consapevole della realtà dolorosa, a tratti lo stato d’animo sembra tornare “indietro”, quasi si potesse recuperare “magicamente” quanto perduto; si alternano disperazione e lamentele, rabbia e dolore, si fa più lacerante il vissuto di abbandono, perdita, solitudine, vuoto. Tutto l’interesse e l’energia della persona sono focalizzati sul valore perduto mentre altri aspetti della realtà vengono trascurati. Un “dopo” non sembra possibile
– l’illusione del recupero lascia definitivamente il posto alla delusione, alla realtà della mancanza e dell’assenza, della fine
– la disperazione depressiva e il senso di vuoto gradualmente si aprono ad un necessario processo di accettazione della dura realtà e riorganizzazione del proprio progetto di vita… Senza il valore perduto, senza la persona, senza il sogno, senza ciò che avrebbe potuto essere…
– la persona in lutto riprende a guardare in modo diverso dentro e fuori di sé. C’è quello che resta, il ricordo, la storia, il valore della vita “precedente”, ma anche la nostalgia, ancora rabbia e dolore, forse un po’ attenuati, di una forma e intensità differente… E c’è anche l’investimento su altri valori, su altre persone, relazioni e progetti. Un “dopo” diventa possibile…
Se quanto descritto sopra delinea sommariamente la complessità dell’esperienza di lutto è importante risottolineare che ciascuno attraversa il lutto a suo modo e ciascuno segue vie più o meno sane o patologiche. Chi ne esce addolorato lacerato, ma in qualche modo piu pronto alla vita e chi, invece, resta intrappolato nel processo della perdita, del dolore, della morte e si insabbia in una vera e propria esperienza depressiva. Tutta da esplorare e di cui prendersi cura.

La psicoterapia aiuta la persona a percorrere il proprio personalissimo percorso di lutto…

5 STRATEGIE PER FRONTEGGIARE IL LOGORIO DEI TEMPI MODERNI …

Ansia, panico, stress, depressione, sensi di colpa, senso di inadeguatezza sono parole abusate nel linguaggio comune, sono espressioni linguistiche di un mal-essere originato dalle vicissitudini quotidiane in questi “tempi moderni”.
Queste “parole carrozzone” contengono il riferimento, quasi sempre inconsapevole, a stati d’animo negativi ed emozioni tossiche che ci assediano da più parti. Lo stress delle corse quotidiane, il tempo che non basta mai, la coperta sempre troppo corta, la gente che non si rende conto di come agisce, chi parla senza connettere lingua e cervello. Tutte espressioni e immagini che fanno riferimento al nostro comune stress quotidiano. E progressivamente corpo e mente si ammalano. Cominciamo a sviluppare piccoli grandi acciacchi a livello somatico (stanchezza diffusa e permanente, difficoltà di respirazione e sospiri continui, tachicardia, mal di testa costante, disturbi gastrointestinali, incapacità di rilassarsi, tensione muscolare in diversi distretti corporei), piccole e grandi lacerazioni dell’anima (irritabilità, agitazione, suscettibilità, ansia continua o facilmente attivabile, sfiducia, insoddisfazione, malcontento, bassa autostima, senso di impotenza e impossibilità al cambiamento), abitudini malsane (sonno disturbato, alimentazione dis-regolata, difficoltà a concentrarsi e a prendere decisioni, incapacità di risolvere i problemi, continua corsa appresso al tempo, incapacità di dedicarsi o di godere di attività di svago e relax, tendenza all’autoisolamento sociale) associate a conflitti nelle relazioni, frustrazioni all’ordine del minuto e delusioni sempre dietro l’angolo perché, ahinoi, stiamo scoprendo solo oggi che la realtà non è sempre (o quasi mai) come la vorremmo.
In particolare, un elemento problematico è il conflitto che nasce dalle energie, mentali e fisiche, che dedichiamo a curare l’immagine esteriore a discapito della cura del mondo interiore.
La necessità, soggettivamente avvertita, “socialmente orientata”, più o meno consapevolmente perseguita, di corrispondere ai modelli sociali, culturali e storici di “come dover essere” per essere “vincenti” ci procura:
stress – esaurimento di energie fisiche ed emotive con sviluppo di sintomi somatici e psichici, compresi abuso di sostanze e dipendenze varie
ansia – la prestazione deve essere sempre al limite dell’impossibile
panico – aiuto!!! Sto perdendo il controllo, sto impazzendo, sto morendo, sto perdendo me stesso
senso di inadeguatezza – sarò mai all’altezza?
senso di colpa – sono “out”, “dislike”, “pollice verso”, incapace, brutto, sporco, cattivo, perdente
depressione – non ce l’ho fatta, sono un fallito
calo dell’autostima – non valgo niente
solitudine – senso di esclusione e rifiuto, distacco e chiusura verso il contatto autentico e vitale con il mondo, con gli altri e con se stessi.
Sei consapevole di quello che “scegli”?
Quali risposte necessarie, utili e percorribili a questo progressivo ammalarsi?
Quale terapia? Quale prevenzione? Quali modelli educativi? Quali modelli di crescita “per adulti”? Quali strategie concrete?
Qual è l’atteggiamento corretto rispetto ai suddetti stress della vita quotidiana?
Cosa possiamo fare?
Ecco 5 strategie fondamentali:
1. Rallentare, fermarsi, stare. Imparare a stare nel qui-e-ora, semplicemente per vivere appieno quello che ci sta accadendo, al centro di noi stessi e della nostra vita, senza fuggire nel futuro delle cose da fare e nel passato degli errori commessi che ci perseguitano con sensi di colpa e di fallimento
2. Ascoltare le nostre emozioni, i nostri bisogni, i nostri valori. La nostra paura, il nostro dolore, la sensazione di essere alienati dalla nostra natura più squisitamente umana. Ciò che ci rende più vivi e vitali
3. Riconoscere i nostri pensieri distorti, deleteri, disfunzionali, le modalità tossiche che abbiamo di percepire il mondo e noi stessi
4. Individuare azioni più a misura “umana”, diverse da tutti quei comportamenti francamente malati (esistono altri termini per definirli?) che riempiono la nostra quotidianità di “corri e scappa”, “devi e resisti” e che ci fanno arrivare a fine giornata quasi sempre con la sensazione di frustrazione, insoddisfazione, esaurimento, “non ancora abbastanza”.

5. Governare il proprio tempo in modo più consapevole. Equilibrare le attività di dovere con quelle di piacere. Le attività solitarie con quelle che prevedono l’incontro “reale” con gli altri.

In terapia aiuto le persone a declinare “operativamente” queste cinque strategie: cosa fare? In linea con quali valori personali? In vista di quali scopi e obiettivi? Quali azioni concrete e specifiche? Quando? Dove? Con chi? In che situazioni? Sfidando quali abitudini? Affrontando quali paure? Prendendo quali rischi? Con quale prezzo da pagare?

Ricordati che devi vivere

La frustrazione, la delusione, la non perfezione della vita sono ineliminabili. Può essere scontato o, forse utile, ricordare che alcune ciambelle vengono senza buco La bomba , che le giornate sono storte e dritte, che le persone ci cercano e ci allontanano, a volte ci evitano proprio, che la vita ci applaude e ci fischia. Quando la realtà ti delude Che una cosa almeno non dobbiamo dimenticarla Ricordati che devi morire. E che dobbiamo imparare a dire è andata così

Dice il saggio: “la felicità è dentro di te” … ma tu non riesci a trovarla Istruzioni per rendersi infelici . La felicità, la vita che vogliamo vivere, è all’interno di ciascuno di noi quando accettiamo la non perfezione delle cose Depressione ed esperienza depressiva , quando accogliamo ogni esperienza come un dono, quando riconosciamo la legittimità di ogni aspetto di noi stessi, anche quelli “sconvenienti” Figli della propria famiglia, tra lecito e proibito . Quando ci liberiamo di ogni aspettativa su come dovrebbe essere la vita, quando ci svincoliamo dall’obbligo di “dover essere” in questo o in quest’altro modo “per andare bene” Essere e dover essere, per sentirci ok, per ottenere amore e approvazione L’insegnamento della cacca.

E poi c’è l’amore a condire la felicità!!! Love is the answer… L’amore sentimentale, romantico, sensuale e sessuale. L’amore per i figli. L’amore per i genitori. L’amore per gli amici. L’amore per il lavoro. L’amore per tutte le creature dell’universo. L’amore per la vita. Come possiamo non celebrare l’amore?!?! Fino all’amore primario, fino al desiderio inconscio (ma nemmeno tanto), di ciascuno di noi, di un ritorno all’onnipotenza perfetta del mondo intrauterino, all’amore ideale del “tutto e subito”.

E, difatti, quando usciamo da quel posto cominciamo a piangere… Da lì, da quel momento, di fatto, comincia un’altra vita. Oltre l’illusione della totalità perfetta dell’amore che tutto dà e nulla chiede. Un “vuoto”, più o meno ampio, con cui tutti, chi in un modo chi in un altro, faremo i conti per tutto il resto della nostra esistenza 3 tipi di lamentela. Per molti, anzi, quell’amore originario si rivela ben presto un’illusione drammatica, una realtà drammatica, un bisogno di accudimento “mancato” che lascerà i segni dolorosi di un vuoto “irrisarcibile” La bambina che costruiva aquiloni

Messa così può apparire uno scenario alquanto deprimente… Oppure no?!?!!!

È vero che la vita, nel suo quotidiano dispiegarsi, nella concretezza delle situazioni che viviamo, può essere intesa come un continuo processo di lutto, un continuo vivere la perdita del paradiso, vivere passaggi dolorosi, rotture, separazioni, vivere lo scarto tra ciò che desideriamo e ciò che realisticamente riusciamo ad ottenere. E quindi richiede di vivere un’esperienza depressiva.

Al tempo stesso, è anche vero che tutto questo potrebbe non essere vero La storia siamo noi . È vero se ci credo. È vero se mi faccio guidare da questa visione della realtà Il punto da cui guardiamo il mondo.

Non è vero se non ci credo. O meglio posso credere anche ad una visione alternativa delle cose 5 motivi e 5 motivi , una visione parimenti legittima e “realistica” della realtà da cui posso farmi guidare nel modo di pensare, di sentire, di agire, di vivere la vita.

A cosa “scegli” di credere?

La fonte della verità Nuovi genitori di se stessi

Da quali “valori” scegli di farti guidare?

Come sono gli abitanti di questa città? L’undicesimo comandamento

Di cosa deve essere “piena” la vita che vuoi?

Una vita su misura La felicità esiste

Come “ti puoi organizzare” per creare e realizzare la vita che vuoi?

Le cinque O della crescita personale Oggi è il primo giorno del resto della nostra vita

Cosa “concretamente devi” fare per vivere la vita che vuoi vivere?

Preghiera dell’azione efficace GOAL

Il rifugio sicuro

Dopo quasi due anni di terapia della “sua” depressione, con risultati soddisfacenti in termini  di ampliamento dei suoi spazi vitali (sta uscendo con un ragazzo, ha ripreso a comprarsi dei vestiti “colorati”, sta prendendo informazioni per un nuovo corso che le dovrebbe consentire di acquisire competenze per il lavoro), Nadia porta un sogno.  “Dopo aver gettato la spazzatura mi ritrovo a rincorrere il camioncino che l’ha appena ritirata… ho bisogno di riprenderla per vedere se ho gettato anche qualcosa che non dovevo… un sasso trovato da bambina che da sempre è stato per me un talismano scaccia mostri…”. L’elaborazione successiva ci permette di rintracciare significati che Nadia sente particolarmente rilevanti per lei e che le suscitano emozioni contrastanti. Di dolore e paura. Di stupore e serenità. Il sogno racconta il paradosso del rifugio sicuro, tipico dell’esperienza depressiva.

La depressione, il crogiolarsi in sentimenti depressivi, la difficoltà a starci e anche a lasciarli, esprimono l’ambivalenza di un rifugio sicuro di cui si ha bisogno e che si teme al tempo stesso. Se ne ha bisogno per “fermarsi e stare”, per accedere al nucleo più autentico, profondo di sé, quello “paradossalmente” connesso alle istanze più vitali. Si teme perché porta stagnazione, sprofondamento continuo (vorrei uscire ma è l’unico posto sicuro che conosco). Il depresso è attaccato in modo ambivalente alla sua malattia di cui si lamenta e al tempo stesso teme di lasciar andare, per i vantaggi secondari più o meno grandi che comporta e per la difficoltà ad abbandonare una sorta di zona di sicurezza. Il noto e prevedibile, fonte di dolore e anche di riconoscimento di sé, una sorta di casa sicura sempre difficile da lasciare, una barriera difensiva tra sé e il mondo. Il posto dove si sente veramente se stesso. Libero, naturale. Fino al punto di pensare che non sia possibile vivere in altro modo.

Come rispondere con strade alternative ai bisogni che sembra soddisfare il rifugio nei sentimenti depressivi? Questa è la domanda che guida l’esplorazione terapeutica quando il paziente porta questi contenuti, attraverso i sogni o per altre vie, vissuti contemporaneamente di desiderio e paura di “lasciar andare” la propria depressione.

Cosa manca al depresso? 

Spesso il senso comune non comprende lo stato depressivo. Se pensiamo a noti personaggi, famosi anche per aver attraversato esperienze fortemente depressive, da Edoardo Agnelli a Vittorio Gassman, da Luciano Ligabue a Vasco Rossi, solo per citarne alcuni, senza passare per poeti e letterati maledetti e benedetti, la domanda che ascoltiamo più frequentemente chiede: ma cosa gli manca? Cosa gli mancava? Persone a cui sembra non mancare niente, persone di “successo” nei rispettivi ambiti. Come spesso accade, l’apparenza non rende un buon servizio all’esperienza soggettiva.

Al depresso manca la capacità di riconoscere, accettare, contenere, integrare i sentimenti conflittuali e ambivalenti. Il depresso oscilla invariabilmente tra rappresentazioni di sé come vittima e dell’altro carnefice oppure sé carnefice e colpevole in rapporti distruttivi in cui l’altro è sottomesso, dominato, schiacciato. Non trovando di fatto soluzioni all’angoscia interiore né modulazioni dell’umore soddisfacenti né reale contenimento e lenimento del dolore. Il depresso non riesce a lasciare una visione della realtà “bianca o nera”, “tutto o nulla”, “vita o morte”. La vita è dicotomica, spesso vissuta nella disperazione del vuoto, di un senso di pienezza mai raggiunto, come un secchio bucato che non si riempie mai. Sentimenti aggressivi, non arginati, straripano e prendono le più svariate forme e vie d’espressione, di attacco al sé o all’altro, di chiusura e ripiegamento fino all’estremo comportamento suicidario, rivelatore comunque di una richiesta di aiuto oltre che espressione di aggressività.

Al depresso manca la capacità di vivere “la vita non perfetta” ovvero di viversi piccole esperienze quotidiane “depressive”, fisiologicamente legate al senso dei propri limiti e della personale vicenda umana, senza farle tracimare nella malattia depressiva o in sentimenti depressivi ingovernabili. Tale capacità di elaborazione ed integrazione della propria umana vulnerabilità è ostacolata dall’ossessione legata ai valori del dominio e del successo, valori sociali prima interiorizzati poi, dal dover essere forti e invincibili, dal dover primeggiare oltre ogni scrupolo e considerazione etica, valori che negano la possibilità della debolezza, della fragilità, della sofferenza. La possibilità di soffrire viene giudicata negativamente, esclusa, chi soffre è rifiutato, prima per pena poi per rabbia: non c’è tempo né spazio, né dignità e attenzione per l’ascolto della sofferenza, dell’interiorità. La sofferenza e la sensibilità devono essere negate, addomesticate, dominate. Chi non si adegua alle aspettative sociali (e interiorizzate) di “dover essere il primo o il più o il top” è emarginato, escluso, deve vergognarsi e nascondersi, soffrire in solitudine, morire di senso di inadeguatezza.

Al depresso manca l’orientamento al futuro, è bloccato in ogni progettualità. Ha un tempo vissuto “congelato” nel presente e paradossalmente “proiettato nel passato” (senso di colpa, paradiso perduto, nostalgia, rimorso e rimpianto)

Al depresso manca la capacità di accettare il tempo che passa. Guarda sempre al passato, incapace di guardare avanti. Non è in grado di separarsi dal passato, da ciò che è stato; per il depresso perdere qualcosa è vissuto profondamente come perdere se stesso. E al contempo non riesce a vivere il presente, a godere di ciò che il presente offre, non riesce a stare nel pieno dell’esperienza qui-e-ora.

Al depresso manca la capacità di rinunciare al paradiso perduto dell’onnipotenza infantile. Vorrebbe portare sempre tutto con sé, non rinunciare a niente e con ciò di fatto evitare perdite e delusioni inevitabili a cui non vuole arrendersi. E con ciò sprofonda in sentimenti di nostalgia, rimpianto, rimorso, lamento, in cui a volte è chiaramente individuabile ciò che è stato perso, altre volte invece no. Mi lamento dunque sono!!!

Al depresso manca la progettualità esistenziale, la capacità di narrarsi nella propria storia tra limiti e possibilità. La capacità effettiva di accettare e ringraziare per ciò che si è ricevuto oltre che di arrabbiarsi e piangere per ciò che non è stato, di addolorarsi per il vuoto e la ferita mantenendo comunque una speranza.

Il richiamo depressivo 

La depressione, anche nei momenti di maggiore disperazione e autodistruzione, è una richiesta d’aiuto. La depressione è un dolore psichico che sembra non conoscere lenimento, ma anche un invito, un richiamo alla ricerca di questo lenimento, del contenimento e della cura.

Se è vero che in ogni malessere depressivo è possibile rintracciare vissuti di perdita, fallimento, indegnità, vuoto, è anche vero che l’intreccio di pensieri e sentimenti è sempre molto complesso e articolato: tristezza per ciò che manca, è perduto; rabbia quando è presente l’idea di aver subito un danno ingiusto; senso di colpa quando ci si ritiene in gran parte i primi responsabili del proprio “destino” e del proprio dolore; spesso vergogna per le condizioni di ritiro sociale; autosvalutazione se assediati dalla paura del giudizio degli altri: smarrimento di fronte ad una situazione di degrado affettivo ed esistenziale; perdita di senso, di significato e direzione della vita; angoscia e vuoto.

Spesso, di fronte al mistero di un malessere che sembra inspiegabile, il depresso va alla ricerca di un senso che non sembra facile da rintracciare o di un colpevole di una colpa difficile da definire. Questa ricerca esprime un bisogno di spiegazione prima e di cura poi, ma tale bisogno resta quasi sempre insoddisfatto.

Un approccio utile nella comprensione e nella cura dell’esperienza depressiva richiede l’attenzione a due dimensioni fondamentali che possono rendere ragione della traiettoria unica di ogni malessere depressivo:

1.      Motivi attuali, contingenti, scatenanti legati a vissuti di perdita, fallimento, autosvalutazione e colpa. Alcuni accadimenti esterni particolarmente critici e stressanti (problemi lavorativi, crisi di coppia, lutti, delusioni nei rapporti, progetti non andati a buon fine, riduzione di efficienza percepita in diversi ambiti di vita, ecc.) possono portare la persona a confrontarsi con sentimenti dolorosi e angoscianti, con situazioni fonte di tristezza e rabbia, autosvalutazione e sensi di colpa, smarrimento e blocco.

2.     Assetto interno storicamente determinato (schemi/filtri di pensiero, conflitti emotivi irrisolti, bisogni relazionali mai appagati, ferite laceranti, senso di vuoto, angosce di abbandono e perdita d’amore). Il momento critico attuale, fonte dei suddetti svariati sentimenti dolorosi, funziona come detonatore di una situazione esplosiva personale di “carattere depressivo” in precedenza nascosta o latente. Le difficoltà attuali fanno emergere i vissuti depressivi in tutta la loro potenza: difficoltà ad affrontare la realtà quotidiana, aridità affettiva, ritiro dai rapporti interpersonali, difficoltà a svolgere le normali mansioni quotidiane, perdita di senso della vita fino a ideazione suicidaria o addirittura tentativi di togliersi la vita, ecc..

Il lavoro terapeutico deve portare il paziente a mantenere sempre attenzione e cura su alcuni aspetti fondamentali:

1.      cogliere ed elaborare il rapporto tra crisi attuale e visione del mondo preesistente

2.     curare la ferita antica: il dolore, il vuoto, il senso d’abbandono, l’essere dominati da un dover essere mai raggiunto e mai raggiungibile

3.     portare avanti una quotidianità “normale”, un adeguato rapporto con la realtà in relazione ai propri bisogni e ai contesti della propria vita

4.    sviluppare un progetto di vita che integri la propria storia e la propria personalità con nuove possibilità di realizzazione e attribuzione di senso.

Più che ogni altro quadro psicopatologico, psicologico ed esistenziale, la cura dell’esperienza depressiva richiede veramente di scendere all’inferno per uscirne rinnovati…

“La depressione è una signora vestita di nero che bisogna far sedere alla propria tavola ed ascoltare” (Carl Gustav Jung)

Depressione ed esperienza depressiva 

Esistono diverse forme di depressione: depressione reattiva ad uno stress di vita (lutto, perdita, fallimento, cambiamenti, separazioni, ecc.) o depressione di natura endogena, indipendente da accadimenti esterni; depressione transitoria o cronica; depressione unipolare o bipolare a seconda se il quadro depressivo con abbattimento dell’umore, “stare sotto un treno”, pensieri negativi, apatia nel comportamento, chiusura interpersonale si alterni o meno con un quadro di tipo maniacale, con pensieri, comportamenti, umore e gestione delle relazioni completamente eccitati, esaltati, accelerati, “sopra le righe”.

Esistono diversi modelli che offrono una spiegazione delle forme e delle cause della depressione. Ogni approccio o scuola fornisce un proprio inquadramento del funzionamento depressivo (modelli psichiatrico, biologico, psicoanalitico, cognitivista, umanista, sistemico, interpersonale, socioculturale, ecc.).

Esistono conseguentemente diverse possibilità e modalità d’intervento, di tipo biologico-farmacologico e psicologico sociale, alcune orientate sul polo del sostegno alla persona depressa e di riduzione del danno, altre sul polo della cura trasformativa ed evolutiva.

Al di là dell’etichetta diagnostica e delle manifestazioni sintomatologiche, al di là di come la depressione viene spiegata e compresa, al di là delle diverse forme di trattamento, esiste comunque l’esperienza depressiva: il vissuto depressivo, i sentimenti depressivi che la persona porta con sé  in terapia come espressione di una sofferenza e di una richiesta d’aiuto.

In terapia si guarda la persona prima che la malattia e, purtuttavia, è possibile individuare, senza pretesa di esaustività, alcuni punti essenziali comuni ad ogni esperienza depressiva:

sensazione di impotenza, incapacità, colpa, indegnità rispetto al dover raggiungere standard elevati sia di origine sociale (potere, successo, eccellenza, dominio, autoaffermazione) sia di origine interna (ideale dell’Io elevatissimo, perfezionista, persecutorio); “non sei all’altezza di come dovresti essere”; “non hai fatto quello che avresti dovuto fare” queste sono solo alcune delle frasi che rimbombano nella mente del depresso
difficoltà a confrontarsi ed accettare “l’imperfezione” della vita, di sé, degli altri. La vita quotidiana, i rapporti interpersonali, ma anche il rapporto con se stessi ci chiedono di confrontarci continuamente con l’esperienza della delusione (noi, gli altri, le cose non sempre sono proprio come vorremmo), della perdita (prima o poi la vita ci toglie qualcosa di importante, persone care, ma anche progetti personali), della separazione (la vita è una serie di distacchi che dobbiamo saper superare nella nostra crescita), del fallimento (non sempre riusciamo ad ottenere ciò che vogliamo), del limite (ad un certo punto ci dobbiamo fermare di fronte a qualcosa più grande o più forte di noi), della sconfitta (non sempre si arriva primi e spesso si sta molto indietro), rinuncia (ogni scelta ha un prezzo da pagare)
difficoltà ad accettare la natura ambivalente e conflittuale di sé, della vita, degli altri. La vita è “bella” e la vita è anche “brutta”. Come direbbe un bambino. Le persone sono “buone” e sono anche “cattive”. Come direbbe un bambino. Siamo capaci dei sentimenti più sublimi di amore e generosità e anche degli impulsi più bestiali, violenti, distruttivi. Dentro ciascuno di noi, nell’essere umano, esistono l’amore e l’odio, le parti dolci e quelle aggressive. Chi non riesce a riconoscere, accettare e integrare dentro di sé e nel dispiegarsi della vita questa natura umana finisce per essere preda di continui sentimenti depressivi di vuoto, disperazione e impotenza.
Il cuore del vissuto depressivo è proprio il risultato della difficoltà ad accettare l’imperfezione (superando l’onnipotenza infantile che perdura in ciascun adulto) e ad integrare l’ambivalenza dei sentimenti che albergano in noi.

Come per l’ansia, la depressione esiste come sofferenza soggettiva unica e irripetibile della specifica persona con la sua individualità e la sua storia. I sentimenti depressivi sono un’esperienza soggettiva universale e assumono una forma e un’intensità più o meno distruttive a seconda di come la persona riesce a padroneggiare conflitti, frustrazioni, delusioni, perdite, angosce che la vita presenta, sia nel dispiegarsi quotidiano sia come dimensioni inevitabili dell’esistenza con cui quindi tutti dobbiamo fare i conti.

La psicoterapia della depressione cerca di trasformare il disagio soggettivo in opportunità di evoluzione personale. Il depresso va aiutato ad affrontare ciò che la vita presenta, a dargli un senso evolutivo, a piangere e ridere della stessa cosa, senza esserne distrutto.