Cosa vuoi controllare?!?!

Un bisogno fondamentale dell’essere umano è quello di controllo. Controllare per prevedere e per rispondere adeguatamente alle sollecitazioni dell’ambiente, materiale e interpersonale. L’idea diffusa è che un maggiore controllo sia associato ad un maggiore potere di governare le cose che ci accadono, le esperienze che viviamo e il benessere o malessere che appartiene alla nostra vita. Ed è un’idea molto realistica. Ma da chiarire un po’.
Un principio psicologico e interpersonale fondamentale è che possiamo controllare alcune cose, ma non altre, in particolare possiamo controllare ciò che ci appartiene, ma non ciò che riguarda altre persone: cosa vogliono, cosa pensano e cosa fanno. Non possiamo e per certi versi non dobbiamo controllare quello che appartiene agli altri, alla libertà di ciascuno di scegliere valori, desideri, pensieri e comportamenti.
Ma anche a casa nostra il controllo è tutto da controllare. Primo, perché a volte per cercare di controllare tutto finiamo per perdere il controllo, come ad esempio succede nel circolo vizioso degli attacchi di panico. Secondo, perché è da capire bene cosa possiamo controllare.
Cosa possiamo controllare veramente?
Possiamo controllare i nostri VALORI. Ciò che è importante per noi lo possiamo scegliere, anche se non sempre tendiamo ad agire in linea con ciò che ci diciamo sia importante per noi. A volte certi nostri comportamenti sembrano anzi andare nella direzione contraria a quanto consapevolmente vorremmo fare. Come quando tradisci un amico, non sei affettuoso col partner, sei aggressivo coi figli, trascuri il lavoro, non ti prendi cura della tua salute.
Possiamo controllare i nostri PENSIERI. Forse sì forse no. In parte sì ed è quello che cerchi di fare quando individui pensieri disfunzionali e irrealistici. In parte no, quando sei attraversato da pensieri che non conosci o da pensieri conflittuali tra loro.
Possiamo controllare le nostre EMOZIONI. In parte almeno. Emergono apparentemente in modo spontaneo, quasi automatico, senza che noi ce ne accorgiamo, fino a quando riusciamo a sentirle nel corpo, a identificarle, a dare loro un nome. E a volte nemmeno riusciamo a comprendere e conoscere l’emozione che proviamo, sentendoci semplicemente attraversati da qualcosa di fisico e mentale, spesso disturbante. In realtà, noi possiamo controllare in parte le emozioni per governare il modo in cui le esprimiamo e le mettiamo al servizio dei nostri bisogni e desideri. Le emozioni sono stati psicosomatici più o meno utili o dannosi su cui abbiamo un certo grado di potere: possiamo incorniciarle nel contesto in cui le proviamo, associarle ai pensieri che le accompagnano, legarle agli scopi per cui sono sorte. Cosa provo? Quanto è intenso ciò che provo (da 1 a 10)? Quando, dove e con chi vivo questa emozione? Quali pensieri mi faccio in quella situazione? Quali scopi o bisogni ho in quella situazione? Cosa posso fare per rendere la situazione per me più soddisfacente? Farsi queste domande e cercare con attenzione le risposte è la migliore forma di controllo che abbiamo su noi stessi, sulle situazioni che viviamo, quindi sul livello di soddisfazione che possiamo raggiungere accanto ad un certo grado di frustrazione e delusione che dobbiamo accettare… Visto che tutto non possiamo controllare!!!
Ed ecco dunque che, da ultimo, ma non per importanza, possiamo controllare le nostre AZIONI. Il principio è concreto e specifico ed è presto detto: agisci per ottenere ciò che vuoi, goditi la soddisfazione e impara dalla frustrazione, raccogli l’informazione di ritorno dalla tua azione, comprendendo ciò che ha funzionato e ciò che devi correggere… E via così… Agisci e comprendi, comprendi e agisci, lungo la strada che conduce alla vita che vuoi, imparando anche a fare a meno di ciò che al momento (a volte per sempre) non puoi ottenere!

Il circolo vizioso del panico. La psicoterapia integrata della paura della paura

Come funziona il panico?
Succede qualcosa che genera ansia e stress. In una certa misura ansia e stress sono normali. Le normali richieste della vita ci portano ad attivarci per rispondere. La persona che manifesta ansia e stress, normali o fisiologici, attiva tutte le sue risorse per fronteggiare, superare e ristabilire un equilibrio in cui le richieste si abbassano e la persona sente di riuscire a gestire ciò che la vita le chiede con le risorse a disposizione.
La preparazione di fronte allo stress attiva il sistema nervoso autonomo che prepara l’individuo a fronteggiare la situazione che a qualche livello è vissuta minacciosa, pericolosa, per il proprio equilibrio, con un intero organismo psicofisico attrezzato per combattere o fuggire o mimetizzarsi o simulare la morte.
L’ansia e lo stress diventano eccessivi quando per la persona, quelle richieste, intense e ripetute, superano la sua capacità di fronteggiarle e la persona va in riserva, in esaurimento. In modo più o meno consapevole, la persona vive questo surplus di richieste come qualcosa di molto minaccioso e pericoloso. Si deve attivare ancor di più. Il tutto per affrontare nel migliore dei modi il pericolo o un predatore. Come vivessimo nella giungla più selvaggia, anche se stiamo semplicemente in Europa nel 2020.
Che pericolo è questo? Dove sta la minaccia?
La minaccia è velata o nascosta, spesso indicata da ciò che ci crea stress, nascosta nelle pieghe del “dover essere” e del “sentirsi in difetto” rispetto a come dover essere. È minaccioso ciò che sentiamo e crediamo sia più grande di noi, qualcosa rispetto al quale ci sentiamo fragili, indifesi, impotenti, incapaci, non all’altezza. Fatto sta che la reazione è di paura con tutto il corteo di sintomi neurovegetativi (battito cardiaco accelerato, oppressione toracica, respiro affannoso o sensazioni di soffocamento, sudorazione eccessiva, eccesso di caldo o di freddo, tremori in varie parti del corpo, sensazioni dolorose o fastidiose diffuse un po’ dappertutto, sintomi gastrointestinali, debolezza, tensione muscolare, vertigini, senso di svenimento, testa confusa, sensazione di non riuscire a parlare in modo adeguato e a pensare in modo chiaro, formicolii, bocca secca, sensazioni di irrealtà, sensazioni di essere fuori dal proprio corpo, paura di perdere il controllo o di agire in modo bizzarro o di fare una figuraccia o di impazzire, addirittura di morire, sensazioni di non farcela a sopportare quello che sta accadendo).
Da qui comincia il circolo vizioso. Paradossale. Le sensazioni somatiche dell’attivazione della persona per affrontare i pericoli vissuti diventano a loro volta fonte di paura. La paura della paura. La persona si è spaventata e tende da ora in poi ad interpretare, automaticamente, ogni sua manifestazione somatica e psicologica come segno che sta per tornare quella paura. Vive un’ansia anticipatoria (immagini di pericoli) rispetto a stimoli esterni e sensazioni interne che in precedenza erano innocui. Con pensieri quali “sto per morire di infarto o soffocato, sto impazzendo, perderò il controllo, farò una figuraccia” (pensieri che esprimono le paure che sono i sintomi dell’attacco di panico). Quindi si spaventa ed effettivamente le manifestazioni del suo spavento le confermano che la paura è tornata. E così via… Fino al panico!!!
Fino a quando, la persona, per gestire la sua paura, comincia ad attivare delle strategie che, purtroppo, invece di scacciarla, la alimentano.
Fattori di mantenimento che sembrano paradossali, ma che funzionano da sostegno ad un’idea di sé fragile, debole, incapace di affrontare le situazioni e i problemi e ad un’idea del mondo come pericoloso e in grado di schiacciare la persona.

Cosa mantiene, cosa alimenta la paura della paura?

Tanti EVITAMENTI, manifesti e nascosti. Per una errata interpretazione, la persona comincia ad associare nella sua mente certe situazioni con la possibilità di avere il panico in quelle situazioni che quindi comincia ad evitare. “Se eviti la situazione fonte di paura ti rassicuri certo, ma non ti permetti nemmeno di capire se effettivamente c’era pericolo e restringi progressivamente la tua zona vitale ovvero dove riesci a vivere sentendoti tranquillo e sicuro. Sicuro e limitato. Una confortevole zona stagnante. Fino a tirarti fuori anche da impegni e responsabilità”. Dunque, tanti evitamenti che modificano in modo sostanziale e peggiorativo la tua qualità di vita.
Molti evitamenti sono palesi, come evitare di andare in certi luoghi, in certe circostanze, da soli o con troppe persone, ecc. Altri evitamenti, per paura di avere un attacco di panico, sono più subdoli, meno evidenti, ma altrettanto potenti nel restringere lo spazio vitale della persona, ad esempio: evitare di uscire senza un tranquillante con sé, evitare ogni sforzo fisico ritenuto eccessivo, evitare situazioni emotive quali troppa rabbia ma anche troppa gioia, evitare i rapporti sessuali, evitare certi film o canzoni troppo “attivanti”, evitare situazioni di caldo o freddo troppo intensi, ecc.

Ricerca di PROTEZIONE e RASSICURAZIONE, quasi sempre legate alla presenza di una persona che realizza tale scopo; bisogno di sentirsi protetto e rassicurato che nell’immediato placa l’ansia, ma che a lungo andare è deleterio e crea una vera e propria dipendenza da chi e cosa protegge e rassicura. La persona “apprende” così dall’esperienza che da sola non riesce ad affrontare la situazione, che senza sostegno è fragile e incapace di affrontare la situazione. Ne consegue un bisogno aumentato di aiuti e presenze di elementi rassicuranti e protettivi, un calo dell’autostima e soprattutto una falsa sicurezza in quanto fondata su qualcosa o qualcuno di esterno.

Ricerca del CONTROLLO con tentativi fallimentari. La persona ormai sensibilizzata al panico diventa estremamente attenta ad ogni segnale somatico di ansia, lo interpreta erroneamente sempre in modo catastrofico (“sto per impazzire, morire, perdere il controllo di me e della situazione”, ecc.) e cerca di controllare le sue sensazioni finendo però per alimentarle ulteriormente. Più cerchi di controllare più aumenta la sensazione che sono sempre maggiori le cose da controllare e maggiore la sensazione di non controllare tutto, che fa rima con niente. Non controllo niente… E si alimenta il ciclo.

Indipendentemente da come, quando, dove, con chi è nato il problema, ormai ha preso ad amplificarsi ad ogni segno di stress.
Indipendentemente dall’origine del problema, oggi è importante prima di tutto intervenire su ciò che lo mantiene, anzi lo alimenta.

La psicoterapia si focalizza su diversi aspetti.

Innanzitutto, aiuta la persona a normalizzare ciò che le sta succedendo. È doloroso, ma non pericoloso. È fonte di sofferenza, ma se ne può uscire. È un problema che si può affrontare. L’ansia è un’emozione e non una malattia. Può diventare una malattia se noi viviamo l’esperienza fastidiosa come catastrofica fino al punto di alimentare ciò che vorremmo evitare. Per questo obiettivo di normalizzazione, diventa anche importante far conoscere all’ansioso come funziona la sua ansia e il potere che l’individuo ha di lasciarla andare (che è totalmente diverso dal controllare).

Secondo. Comprendere come funziona il circolo del panico e come intervenire sui vari passaggi viziosi. Ad esempio, interrompendo la connessione tra sensazioni e interpretazioni: mi batte forte il cuore (sensazione fisica) non significa “mi sta venendo un infarto” (interpretazione catastrofica). Riconoscere, dunque, il proprio pensiero come pensiero e non come realtà effettiva. Ad esempio, il significato di “catastrofe terribile, insopportabile e irrimediabile” che io attribuisco alla realtà è il mio significato e non ciò che è reale. È la mia fantasia o immaginazione o previsione catastrofica, ma non è la realtà della situazione. Dunque, comprendere per disconnettere il link tra fatti e vissuti, tra eventi reali e modi di interpretarli, fino ad attribuire loro un significato di minaccia, pericolo, catastrofe che attiva ansia, paura, evitamento.

Terzo. Trovare strategie per calmarsi, rilassarsi. Per padroneggiare l’ansia fino a renderla gestibile. Ovvero interrompere il circolo vizioso SIA: Sensazioni, Interpretazione, Ansia. A questo fine può essere utile un esercizio che “toglie la sete col prosciutto”. Invece di fuggire le sensazioni somatiche ed emotive che tendi ad interpretare in direzione ansiogena (circolo vizioso SIA), inizia a sostare con “attenzione deliberata” su queste sensazioni, cogliendole per quelle che sono (attivazione del corpo per rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente) e non per quello che credi siano (catastrofe imminente e distruttiva). Ad esempio, poni attenzione al tuo respiro per quello che è… Attenzione continua all’aria che entra e all’aria che esce… All’aria che si sposta dall’addome al torace e allo sterno e poi a scendere… Attenzione alle sensazioni lungo tutto il corpo mentre continui a respirare… Attenzione alle tensioni fisiche che noti e lasci andare…
Più che un esercizio da praticare, è un atteggiamento che puoi cominciare a sviluppare: invece di fuggire dal contatto, sperimentati nello “stare”. Un atteggiamento che ti sarà utile anche rispetto ai tuoi innumerevoli evitamenti comportamentali. Impara a sostare con attenzione deliberata su ciò che ti spaventa… Senza pensieri ulteriori… Senza giudizi… Senza interpretazioni… Semplicemente nota ciò che succede… Nota le tue sensazioni somatiche… Senza volerle cambiare… Notale e lasciale essere…

Quarto. Iniziare ad affrontare un passo alla volta ciò che gradualmente la persona ha imparato ad evitare. Ancora una volta, si tratta di avvicinare la paura per sperimentare direttamente che non c’è nulla da avere paura perché tutto ciò che potrebbe accadere (probabile ma non certo) sarà comunque affrontabile, sostenibile, superabile, rimediabile. La persona viene invitata a confrontarsi col rischio … Avvicinandosi sia alle sensazioni temute senza scappare sia alle situazioni reali finora evitate.

Quinto. Comprendere i motivi di stress attuali. Quali esperienze “stressanti” sono state vissute dalla persona prima dell’attacco di panico, nelle ore, nei giorni, nelle settimane precedenti l’attacco di panico. Cosa le ha rese stressanti per la persona. Non tutti siamo suscettibili alle stesse esperienze.

Sesto. Comprendere come i motivi attuali siano legati a motivi storici, ad una sensibilità personale a certi tipi di stress. È il lavoro sulla ferita. E sulla vulnerabilità alla ricaduta. Sull’origine di un modo di pensare e di stare al mondo che rende la persona suscettibile a certi tipi di stress. Ferita che, purtroppo, se non curata, dopo qualche tempo può far riemergere sintomi e comportamenti problematici.
Spesso le persone che sono suscettibili a vivere esperienze di panico sono state bambini che non sono stati aiutati a dare senso a ciò che stava accadendo loro in certe circostanze e quindi si sono spaventati senza essere stati rassicurati. Oggi sono adulti che hanno paura di provare emozioni, hanno paura di quello che provano perché nessuno li ha aiutati a comprendere ciò che provavano. Hanno paura di perdere il controllo di se stessi perché così è sembrato loro che accadesse quando erano piccoli. Essendo stati spesso bambini lasciati soli, letteralmente soli, a dover capire cosa stava succedendo, ma non avendo gli strumenti per farlo. Bambini che hanno dovuto accudire i genitori o li hanno dovuti controllare. Bambini che non si sono potuti permettere di essere bambini e che hanno imparato a dover essere forti e quindi oggi hanno paura di sperimentare sentimenti di fragilità. Bambini che sono stati così abituati a credere di essere fragili che oggi veramente credono di essere impotenti di fronte ad ogni accadimento.
Per questo la terapia può essere molto breve e anche molto lunga. Dipende da quanto il sintomo ansioso è incastonato in una struttura personale più o meno fragile. Tanto maggiore è la fragilità interiore e la rigidità di certi modi di percepire e interpretare la realtà e di agire nei rapporti interpersonali, tanto più profonda deve essere la terapia; che deve quindi intervenire prima a ridurre il momento acuto di sofferenza per poi trattare il “terreno fertile” al ripresentarsi dei problemi.
Come esiste un circolo che mantiene il panico, anche la sua terapia è circolare e complessa. Ogni fase è connessa alle altre e si lavora in modo integrato, ad esempio cercando di capire come funziona l’ansia e come calmarsi, cercando di comprendere i motivi di stress che la attivano e la mantengono, avendo sempre in mente la storia di vita della persona che traccia i confini della sua sensibilità a certi tipi di eventi stressanti e ai modi ansiosi di reagire ad essi.

Paura, ansia, evitamento. Evita pure, ma non evitare di vivere

Un po’ tutti abbiamo delle ansie. Un po’ tutti abbiamo delle paure. Per certi versi tutto ciò è normale, statisticamente nella norma, diffuso, comune insomma.
Se adesso ti chiedessi di scrivere tre cose, persone o situazioni che ti fanno paura e tre rispetto alle quali provi ansia, sono convinto che in pochi istanti riusciresti a creare questo elenco con forse anche più di tre fonti di paura e tre fonti di ansia. Fai conto che te l’abbia chiesto, scrivi questo elenco e trova la differenza… Che differenza puoi trovare tra paura e ansia? Per farla breve ed essenziale. La paura è l’emozione sana di fronte ad un pericolo reale, realmente minaccioso per l’integrità psicofisica della persona “spaventata”. Ad esempio, di fronte ad un leone che ruggisce o qualcosa del genere che si può trovare anche nella giungla cittadina. La paura serve a proteggerci (almeno ci prova) attivando reazioni al limite dell’istintivo quali scappare, combattere, congelarsi per mimetizzarsi o simulare la morte. Dunque grazie paura!!!
L’ansia, invece, è quella paura di un evento temuto appunto che potrebbe verificarsi o anche no. Solo che l’ansioso non considera questa seconda possibilità e quindi si attrezza di conseguenza: o per prepararsi ad affrontare al meglio ciò che lo spaventa (come quando studi di più per arrivare preparato all’esame e cercare di ridurre quindi l’ansia di essere bocciato) oppure, quasi sempre, purtroppo, cercando di evitare la situazione che potenzialmente potrebbe verificarsi. Non vai all’esame.
Solo che l’evitamento è infingardo. Ti abbassa l’ansia, ma ti impedisce di confrontarti con la situazione temuta quindi senza poter effettivamente verificare se fosse proprio così minacciosa. Minacciosa in che senso poi? E in che misura?
Tutti evitiamo, rinunciamo a quella situazione per abbassare l’ansia. Quando però l’evitamento è costante diventa invalidante perché la persona si priva di confrontarsi con qualcosa che pure desidera, ad esempio chi ha paura del giudizio degli altri (fobia sociale) tende a stare ritirato per non sentirsi sotto l’occhio “malefico” degli altri, ma così facendo si impedisce anche di incontrare gli altri con cui pure desidera avere relazioni.
Allora, un’altra domanda sorge conseguente. Che differenza possiamo trovare tra ansia normale (mettilo tra virgolette) con qualche fisiologico evitamento e ansia patologica generatrice di sofferenza ed evitamento massiccio di tanti scenari pure desiderati? Sempre in maniera essenziale, possiamo affermare che l’ansioso patologico, diversamente dall’ansioso più o meno presente in tutti noi, non riesce ad accettare il rischio che l’evento temuto potrebbe accadere come anche non accadere. Lo considera certo e soprattutto considera certo l’esito catastrofico, irreparabile e insostenibile di ciò che accadrà. Quindi l’ansioso non ha paura di un evento che potrebbe accadere. Si confronta già, nella sua mente, con un evento certo che sarà non solo doloroso, negativo, sgradevole, ma sarà certamente insopportabile, traumatico, distruttivo. Quindi evitare diventa l’unica strategia che sente a sua disposizione. E va a dargli torto… Se continua a pensarla così… Ma è una questione di torto o ragione? Evita oggi, evita domani, evita questo, evita quello, la qualità della vita, delle relazioni e delle possibilità di soddisfazione si riducono notevolmente.
Molta parte della psicoterapia lavora sull’aiutare la persona a confrontarsi non tanto con la “verità” delle sue convinzioni sul pericolo (è una questione di verità?), quanto con la possibilità di accettare il rischio e viverlo come sostenibile, affrontabile, spiacevole, ma non insuperabile.
Vorrei essere promosso, ma anche se venissi bocciato… Potrei continuare a vivere degnamente…
Vorrei essere considerato positivamente, ma seppure venissi giudicato negativamente non ne morirei…
Vorrei dare un’immagine positiva di me, ma anche facendo una brutta figura potrei continuare a vivere la mia vita in cerca di ciò che mi realizza…
Vorrei… Ma anche se non lo ottenessi… Potrei vivere comunque la mia vita cercando di soddisfare i miei bisogni, desideri e valori…

Per accettare l’inaccettabile devi “semplicemente” ridefinirlo e viverlo come accettabile… Quando hai trasformato l’inaccettabile in accettabile per te allora puoi cominciare ad affrontare invece che evitare…

L’abuso e la cura

I disturbi della personalità e molti tra i più gravi sintomi psicologici e psicosomatici in generale sono l’espressione dell’adattamento che la persona ha trovato ad una storia di relazioni stressanti, spesso a partire da relazioni precoci traumatiche; la soluzione, anche se disfunzionale, per padroneggiare lo stress/ trauma emotivo e interpersonale; le strategie che la persona fin da bambino ha adottato per governare qualcosa di emotivamente troppo grande e potente da gestire per cercare di non esserne turbato profondamente.
La persona, bambina, è stata sopraffatta da situazioni più grandi di lei, imprevedibili, emotivamente soverchianti, perciò ingestibili per le risorse limitate di un bambino che a volte ha subito un vero abuso sessuale, spesso da persone vicine, altre volte ha subito un abuso sotto forma di violenza fisica, altre ancora ha dovuto confrontarsi con modalità di relazione e trascuratezza che possono ben definirsi come “abuso psicologico o emozionale”.
Queste diverse forme di abuso e di incapacità genitoriale di prendersi cura in modo adeguato del figlio (di proteggerlo, amarlo, guidarlo, sostenerlo, aiutarlo a costruire una sana autostima, ad avere fiducia negli altri e a trovare senso e valore alla vita) hanno lasciato ferite profonde difficili da rimarginare. In particolare, hanno ostacolato l’apprendimento da parte del bambino di sane capacità di auto-rassicurazione e auto-regolazione emotiva utili per affrontare momenti stressanti, frustranti e dolorosi che la vita ci presenta. Crescendo, quel bambino poi adolescente quindi adulto, avrà trovato altre soluzioni “patologiche” per lenire i suoi dolori, affrontare gli stress quotidiani e le delusioni affettive. Nei momenti di difficoltà, frustrazione e delusione, invece che accedere a sane risorse interne di autoconsolazione e autoconforto, invece di cercare adeguato supporto affettivo tra parenti e amici, tenderà ad utilizzare modalità distorte e francamente malate per far fronte a quelle emozioni dolorose, intense, sovrastanti. Se nessuno gli ha insegnato qualcosa di buono avrà probabilmente trovato qualche sistema per cavarsela in contatto col suo dolore, avrà trovato purtroppo comportamenti problematici e sintomatici come tentativi fallimentari per gestire il dolore, comportamenti disfunzionali tra i più disparati: dipendenze e compulsioni varie, comportamenti alimentari disturbati, atti autolesivi come modo per sentire dolore fisico al posto di quello emotivo oppure autolesionismo per sentire i confini del corpo, sessualità abnorme, comportamenti pericolosi e violenti, sintomi dissociativi, ecc.
Queste diverse forme patologiche in terapia forniscono un “canale di accesso” fondamentale per rivisitare, comprendere, elaborare e “risolvere” la storia traumatica della persona. Quello che la persona sperimenta oggi offre un “ponte” per curare le ferite antiche, per riprendere contatto col bambino solo, “abusato”, ferito, addolorato che ancora vive nell’adulto e che ha bisogno di essere “curato” come non è stato possibile al tempo. Nella relazione terapeutica accogliente e “riparativa”, il paziente può finalmente “chiudere i conti” col suo passato doloroso e riprendere la strada di uno sviluppo felice interrotto o forse mai iniziato…

Quando lo hai imparato e a cosa ti è servito…

Molta parte della SOFFERENZA PSICOLOGICA deriva da una storia di TRAUMI INTERPERSONALI, una storia di vita caratterizzata da figure di riferimento, genitori in primis, che non hanno adeguatamente protetto, accudito, sostenuto, guidato, aiutato il bambino a dare senso alle esperienze. Sulla “BASE INSICURA” di queste carenze relazionali e affettive, la persona non ha potuto sviluppare un’adeguata capacità di PENSARE in modo sano e realistico né una capacità di regolazione delle EMOZIONI né la capacità di adottare COMPORTAMENTI efficaci alla soddisfazione dei propri bisogni e alla realizzazione degli obiettivi personali di vita.
Un modello di psicoterapia che lavora specificamente sui traumi, sia quelli legati ad esperienze devastanti di stress estremo (abusi, catastrofi, terremoti, incidenti a rischio mortale, lutti innaturali, ecc.) sia quelli legati ad una storia di vita interpersonale traumatica caratterizzata da una traumatizzazione relazionale costante, è l’EMDR, un intervento di Desensibilizzazione e Rielaborazione dei traumi.
I traumi possono essere stati evidenti e chiaramente ricordati dalla persona oppure essere meno eclatanti, ma parimenti devastanti, anche perché spesso restano nascosti in una sorta di “memoria traumatica silente”.
Un modo per andarli a scovare, con delicatezza e determinazione allo stesso tempo, soprattutto quelli che originano nella storia di relazioni affettive problematiche, per poterli quindi affrontare nel contesto sicuro della relazione terapeutica, è quello di seguire una semplice domanda, anzi due: QUANDO HAI IMPARATO a pensare quello che pensi, a sentire quello che senti, a fare quello che fai? A COSA TI È SERVITO?
Prova a farlo come esercizio di auto-esplorazione personale, mettendoci i tuoi contenuti… I tuoi pensieri che ti creano problemi, le tue emozioni dolorose, i tuoi comportamenti inefficaci e disfunzionali… Ad esempio…
Quando hai imparato ad aver paura di sbagliare? A cosa ti è servito?
Quando hai imparato ad evitare invece di affrontare? A cosa ti è servito?
Quando hai imparato a sentirti colpevole?
Quando hai imparato a sentirti inadeguato e non all’altezza?
Quando hai imparato a sentirti indegno e non amabile?
Quando hai imparato a compiacere gli altri e sottometterti?
Quando hai imparato a dover essere perfetto e ineccepibile?
Quando hai imparato ad autosvalutarti e sentirti inferiore?
Quando hai imparato a sentirti escluso e diverso dagli altri?
Quando hai imparato a sentirti fragile, debole e vulnerabile?
Quando hai imparato a farti schiacciare e invadere dagli altri?
Quando hai imparato a tenere tutto sotto controllo?
Quando hai imparato ad essere sempre insoddisfatto?
Quando hai imparato ad isolarti dagli altri?
Quando hai imparato ad essere diffidente e aggressivo?
Quando hai imparato a dirti che non vali niente e tutti sono migliori di te?
Quando hai imparato a dirti che non ce la fai né ce la farai mai?
Quando hai imparato a non permetterti piaceri e divertimento?
Quando hai imparato a sentirti vittima della volontà altrui e privo della capacità di scegliere autonomamente?
QUANDO HAI IMPARATO E A COSA TI È SERVITO?

Le domande che ti ho suggerito già potrebbero esserti utili, ma sono comunque solo uno spunto iniziale. Impara a cercare tra le pieghe nascoste dei tuoi tipici, ripetitivi modi di pensare, sentire, agire, creare relazioni…
Se cerchi le risposte a queste domande o ad altre per te più efficaci e sensibili, avrai già un ottimo punto di partenza per PRENDERTI CURA DELLE TUE FERITE DOLOROSE …

Come superare la paura

Quando ti senti bloccato o pensi a tante cose a cui hai rinunciato nella vita, a tante potenzialità perdute, da bambino e poi da adulto, invece di prendertela con qualcuno o qualcosa di esterno a te, focalizza la tua attenzione sulla tua PAURA che ti ha IMPEDITO di REALIZZARE UN’ALTRA VITA, un altro tipo di vita. Interroga questa tua paura, chiedile da cosa ti ha protetto e da cosa ti protegge ancora oggi quando non riesci a cambiare, a fare qualcosa di nuovo che vorresti o dovresti fare ma non ci riesci.
Solitamente le varie paure, più o meno consapevoli, si riducono ad una PAURA ESSENZIALE; la paura è una e protegge dalla minaccia, avvertita profondamente, di NON ESSERE AMATO e STIMATO, dal pericolo “infantile” perché così percepito dalla mente infantile che alberga ancora nell’adulto, di essere rifiutato, abbandonato, non amato, non apprezzato. Una paura INSOSTENIBILE, anzi INCONCEPIBILE, per il bambino allora e per il bambino dentro l’adulto oggi. Ad esempio, la paura di essere sbagliato, cattivo, colpevole e per questo non essere più amato…
Come superarla? Focalizza lo scenario temuto e cerca la RASSICURAZIONE che non si avvererà oppure ACCETTA IL RISCHIO ovvero comincia a comprendere che seppure si verificasse un aspetto della minaccia temuta non è detto che l’intero scenario catastrofico sarebbe realizzato. Oppure comincia a realizzare che anche si manifestasse la peggiore delle catastrofi comunque per te sarebbe SOSTENIBILE e soprattutto RIPARABILE, con la “possibilità di un dopo” tutto da costruire. Un esempio per tanti, anche la peggiore delle rotture relazionali può essere un’opportunità, un portone che si apre…

Fobico

Le persone fobiche vivono dentro un guscio. Protettivo e limitante al tempo stesso. Ne hanno bisogno eppure desiderano romperlo, uscire fuori, vivere liberi.
Una persona può essere “fobica” come modo di essere nel mondo, come modo di interagire con gli altri, come modo di pensare e agire, anche se nell’arco della vita potrebbe non sviluppare mai una sintomatologia fobica. È più una struttura di personalità, un modo di dare significato alla vita, agli eventi, a se stessi, al mondo.
Il fobico lotta continuamente tra bisogno di sicurezza, prevedibilità, protezione da un mondo vissuto come pericoloso e bisogno di libertà, autonomia, espressione di sé. Tenta di conciliare questi due bisogni che in qualche modo percepisce come inconciliabili, ai quali non sa comunque rinunciare, non riesce, non può rinunciare in quanto entrambi fondamentali. Sentendosi piccolo e fragile al cospetto di una realtà minacciosa, ha bisogno di una figura protettiva; il prezzo da pagare per sentirsi protetto è un senso di soffocamento, costrizione, limitazione. Il bisogno di protezione presenta il conto della limitazione e della dipendenza. Il bisogno di essere liberi mette di fronte alla paura di essere soli.
Il fobico ha una paura generalizzata di un mondo minaccioso, anche se questa minaccia non sempre è chiara nella sua testa. Ha paura di sé, dei suoi pensieri, delle sue emozioni, di ciò che potrebbe fare. Della propria debolezza e incapacità a fronteggiare i pericoli. Ha paura degli altri alternativamente vissuti come pericolosi, inaffidabili, giudicanti, imprevedibili, rifiutanti. Ha paura del mondo e della vita troppo pieni di insidie, sorprese, trabocchetti, incertezze, contrasti.
Il fobico ha sempre con sé l’immagine di una futura catastrofe imminente, più che possibile, gravissima, molto più che probabile e che non sarà in grado di affrontare, non potrà reggere, rispetto alla quale non ci sarà via di ritorno, né possibilità di uscirne salvo. Laddove questa salvezza a volte può intendersi rispetto alla paura della morte vera e propria, altre volte rispetto ad un’immagine di sé che potrebbe uscirne devastata da umiliazione e vergogna, altre ancora la mancata salvezza deriverebbe dal giudizio altrui, tanto temuto rispetto ad una propria perdita di controllo che porterebbe la persona a mettere in atto comportamenti bizzarri folli, riprovevoli.

Il fobico, come ogni essere umano, desidera naturalmente esplorare e conoscere il mondo, se stesso, gli altri, la diversità esterna e lontana da sé. Al tempo stesso, fin da bambino, ha imparato ad aver paura dell’esplorazione. I suoi genitori (più di frequente, ma non necessariamente, la madre) , temevano si facesse male, piccolo e fragile di fronte ad un mondo troppo minaccioso per lui; i suoi genitori non riuscivano a stare soli e lo tenevano a sé; i suoi genitori erano imprevedibili e lui non poteva rischiare di allontanarsi con la paura di non ritrovarli. Quindi, precocemente, per rassicurare e rassicurarsi, per consolare e consolarsi, il bambino si è organizzato per intrattenere relazioni basate sulla stretta vicinanza e il controllo. E il desiderio esplorativo che fine ha fatto?
Il fobico tende, in modo più o meno consapevole, a creare relazioni (nelle amicizie, in coppia, sul lavoro, ecc.) basate sulla necessità avvertita come irrinunciabile di una completa disponibilità dell’altro, spesso in un rapporto in cui non esiste reciprocità (due pesi e due misure). L’impronta originaria, come accennato, è quella di relazioni primarie ansiose e ansiogene quando i genitori del futuro fobico gli presentarono un mondo minaccioso, imprevedibile, pieno di insidie al cospetto di un sé debole, incapace di fronteggiarlo… senza la presenza di un altro “protettivo”. Oggi, nelle relazioni attuali, l’altro, sia esso amico o partner, genitore maturo o collega, è avvertito dal soggetto come indispensabile regolatore della propria ansia e paura e con ciò vissuto come fonte di rassicurazione, ma anche di rabbia per la dipendenza.
Il fobico ha paura della costrizione (sentirsi obbligato, vincolato, in trappola …) come ha paura della libertà (sentirsi in potere di… liberare i propri desideri… ).

Il fobico, oltre che un tipo di personalità e un quadro sintomatologico, è anche… ciascuno di noi che, nell’arco di tutta la vita, cerca di integrare sicurezza e libertà, questi due grandi contenitori esistenziali che tanta parte hanno nel regolare il nostro comportamento e le nostre relazioni.

La terapia con le persone con un’organizzazione fobica della personalità ovvero che tendono a guardare il mondo e vivere la vita in modo fobico si basa su alcuni riferimenti essenziali:
– connettersi con e rielaborare la propria storia di vita, di relazioni insicure, di latte e ansia, di ferite dolorose e scelte “prudenti”
– integrare una giusta dose di sicurezza e libertà, ad avere punti di riferimento stabili, ma anche a sviluppare una certa propensione a scelte coraggiose, in vista dell’ignoto, in previsione di qualcosa di stupendo che però ancora non è perfettamente conosciuto
ampliare la propria zona di comfort, lasciando albergare dentro di sé pensieri nuovi e sconosciuti, emozioni mai provate prima, desideri ed eccitazione, comportamenti tutti da inventare, luoghi da visitare, sorprese da scoprire, paure da ingannare
accogliere dentro di sé la molteplicità contraddittoria dell’essere umano, dell’essere umani e quindi imperfetti, ambivalenti, plurali, esploratori e stanziali, puliti e sporchi, precisi e caotici, forti e deboli, “buoni” e “cattivi”, abitudinari e creativi, simpatici e antipatici, generosi ed egoisti, affidabili e imprevedibili, paurosi e coraggiosi, liberi e vincolati, autonomi e dipendenti, fedeli e traditori, solidi e anche in trasformazione, con le radici e con le ali
rivisitare in modo critico e autenticamente fondato il sistema di “regole” di pensiero e d’azione con cui la persona è cresciuta e che oggi possono essere riscritte alla luce di una nuova consapevolezza di sé, meno ancorate al bisogno di prevedibilità e controllo e maggiormente ispirate dal desiderio di esplorare, di conoscere, di vivere ed esprimere se stessi in modo creativo
– prendere dimestichezza col proprio mondo interiore che non è fatto solo di paura, catastrofe, minaccia. Superare la paura delle proprie emozioni. Imparare a conoscerle ed esprimerle in modo sano, utile ed efficace. Riconoscere i propri bisogni imparando a chiedere e a dire no quando è sano, utile, necessario. Legittimare i propri desideri, creando occasioni per realizzarli. Scoprire i propri valori più autentici e farne guida del proprio stare al mondo, con se stessi e con gli altri
superare la visione rigida delle relazioni e abbandonare “la manipolazione delle relazioni”: imparare a stare in relazioni intime, soddisfacenti e protettive senza sentirsi soffocati; imparare ad essere autonomi e indipendenti, all’interno di relazioni comunque appaganti affettivamente, senza sentirsi soli e abbandonati
– imparare a percepire il mondo meno minaccioso e se stessi comunque più capaci di affrontarlo, di cavarsela e di rassicurarsi
imparare a stare con gli altri, nell’amore, nella condivisione, nel gioco e non solo per sentirsi sicuri e protetti
imparare a stare anche da soli, una solitudine che nasca non dall’evitamento, dal ritiro interpersonale e dalla chiusura in se stessi, ma che possa essere una solitudine attivamente ricercata, fonte di gioia, pienezza e creatività

Ovviamente il tutto al servizio di scelte consapevoli e responsabili, basate sulla ricerca della soddisfazione di bisogni e desideri autentici all’interno di un rapporto adeguato con la realtà, in cui farsi carico delle conseguenze delle proprie azioni, nel rispetto di sé e degli altri…

Bibliografia di riferimento
Attili G. Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. 2007. Cortina
Bara B. G. Nuovo manuale di psicoterapia cognitiva. 2005. Bollati Boringhieri
Bowen M. Dalla famiglia all’individuo. 1979. Astrolabio
Bowlby J. Una base sicura. 1989. Cortina
Guidano V. F. La complessità del sé. 1988. Bollati Boringhieri
Guidano V. F. Il sé nel suo divenire. 1992. Bollati Boringhieri
Lichtenberg J. Psicoanalisi e sistemi motivazionali. 1995. Cortina
Lorenzini R., Sassaroli S. La paura della paura. 1987. NIS
Lorenzini R., Sassaroli S. Cattivi pensieri. 1992. NIS
Stolorow R. D., Atwood G. I contesti dell’essere. 1995. Bollati Boringhieri
Ugazio V. Storie permesse storie proibite. 2012. Bollati Boringhieri

5 STRATEGIE PER FRONTEGGIARE IL LOGORIO DEI TEMPI MODERNI …

Ansia, panico, stress, depressione, sensi di colpa, senso di inadeguatezza sono parole abusate nel linguaggio comune, sono espressioni linguistiche di un mal-essere originato dalle vicissitudini quotidiane in questi “tempi moderni”.
Queste “parole carrozzone” contengono il riferimento, quasi sempre inconsapevole, a stati d’animo negativi ed emozioni tossiche che ci assediano da più parti. Lo stress delle corse quotidiane, il tempo che non basta mai, la coperta sempre troppo corta, la gente che non si rende conto di come agisce, chi parla senza connettere lingua e cervello. Tutte espressioni e immagini che fanno riferimento al nostro comune stress quotidiano. E progressivamente corpo e mente si ammalano. Cominciamo a sviluppare piccoli grandi acciacchi a livello somatico (stanchezza diffusa e permanente, difficoltà di respirazione e sospiri continui, tachicardia, mal di testa costante, disturbi gastrointestinali, incapacità di rilassarsi, tensione muscolare in diversi distretti corporei), piccole e grandi lacerazioni dell’anima (irritabilità, agitazione, suscettibilità, ansia continua o facilmente attivabile, sfiducia, insoddisfazione, malcontento, bassa autostima, senso di impotenza e impossibilità al cambiamento), abitudini malsane (sonno disturbato, alimentazione dis-regolata, difficoltà a concentrarsi e a prendere decisioni, incapacità di risolvere i problemi, continua corsa appresso al tempo, incapacità di dedicarsi o di godere di attività di svago e relax, tendenza all’autoisolamento sociale) associate a conflitti nelle relazioni, frustrazioni all’ordine del minuto e delusioni sempre dietro l’angolo perché, ahinoi, stiamo scoprendo solo oggi che la realtà non è sempre (o quasi mai) come la vorremmo.
In particolare, un elemento problematico è il conflitto che nasce dalle energie, mentali e fisiche, che dedichiamo a curare l’immagine esteriore a discapito della cura del mondo interiore.
La necessità, soggettivamente avvertita, “socialmente orientata”, più o meno consapevolmente perseguita, di corrispondere ai modelli sociali, culturali e storici di “come dover essere” per essere “vincenti” ci procura:
stress – esaurimento di energie fisiche ed emotive con sviluppo di sintomi somatici e psichici, compresi abuso di sostanze e dipendenze varie
ansia – la prestazione deve essere sempre al limite dell’impossibile
panico – aiuto!!! Sto perdendo il controllo, sto impazzendo, sto morendo, sto perdendo me stesso
senso di inadeguatezza – sarò mai all’altezza?
senso di colpa – sono “out”, “dislike”, “pollice verso”, incapace, brutto, sporco, cattivo, perdente
depressione – non ce l’ho fatta, sono un fallito
calo dell’autostima – non valgo niente
solitudine – senso di esclusione e rifiuto, distacco e chiusura verso il contatto autentico e vitale con il mondo, con gli altri e con se stessi.
Sei consapevole di quello che “scegli”?
Quali risposte necessarie, utili e percorribili a questo progressivo ammalarsi?
Quale terapia? Quale prevenzione? Quali modelli educativi? Quali modelli di crescita “per adulti”? Quali strategie concrete?
Qual è l’atteggiamento corretto rispetto ai suddetti stress della vita quotidiana?
Cosa possiamo fare?
Ecco 5 strategie fondamentali:
1. Rallentare, fermarsi, stare. Imparare a stare nel qui-e-ora, semplicemente per vivere appieno quello che ci sta accadendo, al centro di noi stessi e della nostra vita, senza fuggire nel futuro delle cose da fare e nel passato degli errori commessi che ci perseguitano con sensi di colpa e di fallimento
2. Ascoltare le nostre emozioni, i nostri bisogni, i nostri valori. La nostra paura, il nostro dolore, la sensazione di essere alienati dalla nostra natura più squisitamente umana. Ciò che ci rende più vivi e vitali
3. Riconoscere i nostri pensieri distorti, deleteri, disfunzionali, le modalità tossiche che abbiamo di percepire il mondo e noi stessi
4. Individuare azioni più a misura “umana”, diverse da tutti quei comportamenti francamente malati (esistono altri termini per definirli?) che riempiono la nostra quotidianità di “corri e scappa”, “devi e resisti” e che ci fanno arrivare a fine giornata quasi sempre con la sensazione di frustrazione, insoddisfazione, esaurimento, “non ancora abbastanza”.

5. Governare il proprio tempo in modo più consapevole. Equilibrare le attività di dovere con quelle di piacere. Le attività solitarie con quelle che prevedono l’incontro “reale” con gli altri.

In terapia aiuto le persone a declinare “operativamente” queste cinque strategie: cosa fare? In linea con quali valori personali? In vista di quali scopi e obiettivi? Quali azioni concrete e specifiche? Quando? Dove? Con chi? In che situazioni? Sfidando quali abitudini? Affrontando quali paure? Prendendo quali rischi? Con quale prezzo da pagare?

Tentare di eliminare lo stress provoca stress

In maniera intuitiva, un po’ tutti pensiamo che una cosa che ci fa male è da eliminare. Sarebbe da eliminare. Si tratti di un cibo o di un vizio, di una persona o di una cattiva abitudine, se qualcosa che è presente nella nostra vita ci danneggia in qualche modo siamo portati ad eliminarla o perlomeno a metterla in discussione, a considerarla criticamente in quanto ci crea sofferenza emotiva e/o fisica. Mangiare male ci porta in sovrappeso e ci crea problemi di salute; vizi vari (fumare, bere, eccedere in comportamenti rischiosi, ecc.) danneggiamo il nostro benessere psicofisico; alcune persone sono chiaramente per noi fonte di tensione, si tratti del partner o del capo, del vicino o di qualche categoria sociale verso la quale siamo “intolleranti”: verso queste persone tendiamo naturalmente ad avere l’idea di eliminarle, espellerle dalla nostra vita.

Questo “comprensibile” atteggiamento di eliminazione nasconde delle insidie. Come se dicessimo a qualcuno “sii spontaneo”, inducendolo quindi a comportarsi non spontaneamente perché segue le nostre direttive di essere spontaneo; o similmente, se dicessimo a qualcuno “disubbidiscimi”, lo metteremmo in una situazione paradossale, irrisolvibile (se mi disubbidisce mi sta ubbidendo…).

Fin dalla metà del secolo scorso questa modalità di comunicazione che crea un “doppio legame” è stata riscontrata in certe famiglie problematiche con membri “portatori” di gravi malattie mentali, quali la schizofrenia… Eppure sembra che tutti siamo impostati per seguire queste regole di buon senso “se una cosa ti crea sofferenza eliminala“. Non fa una piega.

Il problema, tra l’altro, è che per arrovellarci intorno a questa missione (che sa di impossibile) ci perdiamo il gusto della vita. Ci perdiamo per strada la nostra responsabilità di creare, veramente e profondamente, la vita che vogliamo.

Fai conto di avere una bacchetta magica con cui puoi eliminare ogni tuo stress, emozione negativa, persone deleterie, abitudini dannose, pensieri angoscianti e malanni fisici. Che resterebbe? Come organizzeresti la tua vita, la tua giornata, il prossimo minuto? Ecco da qui devi partire per dirigerti verso la vita che vuoi… nonostante tu ancora non abbia eliminato completamente lo stress dalla tua vita!

Quando ti si presenteranno sintomi, pensieri ed emozioni disturbanti… osservali e procedi… facendo estrema attenzione a non usarli come scuse, alibi e giustificazioni… per quello che non fai, per la vita che non vivi. Alla fine della vita dovrai rendere conto solo a te stesso di quello che hai vissuto o non hai vissuto… A lezione dalla morte

Un esempio concreto spero mi aiuti a spiegare meglio. Un paziente mi dice “mia figlia si sposa in Brasile… Ma io non riesco a prendere l’aereo… “. Partecipare lo renderebbe felice, ma non riesce a prendere l’aereo. Ha diverse possibilità.

Prendere l’aereo affrontando la sua fobia, in particolare abbandonando la credenza disfunzionale che “una cosa la devi fare senza ansia” oppure la credenza negativa che “l’ansia sarà insostenibile” (e su questi temi si lavora in terapia). In particolare, in questo caso, come in altri simili, è importante distinguere se hai paura che l’aereo cada (evento improbabile, ma assolutamente grave, da scongiurare e rispetto al quale sarebbe difficile fare qualcosa per arginare il danno temuto) o se hai paura di stare chiuso diverse ore in aereo e temi di soffocare o qualcosa del genere (evento certo quello di stare chiuso, evento grave quello di soffocare, ma quanto probabile?). Puoi distinguere la paura di soffocare dal soffocare realmente? Puoi distinguere la sensazione di soffocamento dall’effettivo soffocamento che porta alla morte? Quale certezza hai che lo stare chiuso ti porterà a “soffocarti”?

Se, per fare certe esperienze, vuoi escludere completamente la possibilità che si verifichi qualcosa che temi allora probabilmente farai ben poche cose…

Se credi di non riuscire a sopportare l’ansia dello stare chiuso in aereo e immagini di morire non lo prenderai mai in quanto l’evento che temi, la morte, è “effettivamente grave” … Sei disposto a rischiare di sperimentare ansia? Ansia equivale necessariamente a morire? Probabilmente sono pochissime le situazioni in cui ciò che temiamo ha il livello di gravità della morte…

Hai paura di morire o hai paura di morire di paura?

Quanto ti rassicura sapere che di paura non si muore? Che di paura non è morto mai nessuno? Quanto puoi tollerare l’ansia e l’incertezza rispetto a quello che accadrà?

Si tratta allora, tornando al nostro paziente la cui figlia si sposerà in Brasile,
di vivere il dolore di non riuscire a prendere l’aereo, accettarlo; vivi l’esperienza depressiva “sana” del lutto per una cosa che vorresti ma che non riesci a realizzare (prendere l’aereo e in quel modo far felice te stesso e tua figlia ). Succede. Lo so che non è facile da accettare. Ma questo è. Se diversamente non è (e anche in questo caso ci si lavora in terapia).

Contemporaneamente, puoi cercare molteplici altri modi che puoi praticare per essere felice (anche senza prendere l’aereo… o puoi andare in Brasile in altro modo o chiedi a tua figlia di sposarsi dove non devi prendere l’aereo). Puoi trovare altri molteplici modi per essere felice e realizzare la vita che vuoi, ad esempio essere un padre amorevole, anche se non sarai presente al matrimonio di tua figlia…

L’errore è pensare che la tua felicità dipenda solo ed esclusivamente da quell’aereo… Che essere un padre affettuoso dipenda solo da quel viaggio…

Da cosa dipende per te essere la persona che vuoi essere?

Quale prezzo scegli di pagare per realizzare la vita che vuoi?

La felicità non equivale a zero stress (niente ansia, niente paura, niente tristezza, niente rabbia, niente di niente…). Niente di niente sarebbe la vera morte.

La felicità è fare scelte nella direzione di ciò che per te è importante… nonostante stress, ansia e i suoi derivati.

“Tra vent’anni sarai deluso non delle cose che hai fatto ma da quelle che non hai fatto, leva l’ancora abbandona i porti sicuri cattura il vento nelle tue vele esplora sogna scopri” (Mark Twain).

Interrogare gli attacchi di panico

Gli attacchi di panico sono manifestazioni estremamente diffuse a livello sociale. La persona che soffre di panico vive un’esperienza soggettiva devastante dal punto di vista psicologico e fisico. L’attacco di panico si è presentato come paura di morire, di perdere il controllo, di impazzire, di non essere più se stessi. Successivamente al primo (a volte unico) attacco di panico, la persona comincia ad aver paura di risperimentare quella paura originale e finisce per organizzare il suo comportamento intorno a massicci e progressivi evitamenti di situazioni, luoghi, persone. La vita diventa estremamente limitata e insoddisfacente. La depressione fa capolino per lo stravolgimento di vita che la persona subisce.

Quando la persona arriva in terapia sta portando un’intera esperienza di vita segnata dal panico. Ovviamente la sua richiesta è di “guarigione”, di eliminazione del sintomo e della sofferenza.

Ogni approccio terapeutico ha un suo modo di concepire e affrontare il panico, più o meno condiviso e integrabile con altri approcci. La ricerca scientifica va nella direzione di validare maggiormente alcuni approcci (cognitivo-comportamentale, strategico breve, integrazione della farmacoterapia) focalizzati primariamente sulla riduzione sintomatica, anche se poi in questi “casi risolti” sono frequenti “spostamenti” dell’area della sofferenza, per cui una persona riduce certi aspetti sintomatici sicuramente invalidanti solo che la sua qualità di vita migliora in minima parte sul piano affettivo e interpersonale. A quel punto appare necessario integrare altri interventi terapeutici che, oltre alla riduzione sintomatologica, invitino ad un lavoro su di sé a livello esistenziale, relazionale.

La persona assediata dal panico ha una visione del mondo come pericoloso e un senso di sé come debole e incapace di affrontare le potenziali esperienze minacciose; focalizza e ingigantisce esperienze e scenari catastrofici immaginati, ha difficoltà a dare la giusta rilevanza alle esperienze che vanno in una direzione contraria al pericolo. Tipicamente il panicato manifesta un certo grado di incapacità a “leggere” le proprie emozioni; in particolare, le sensazioni fisiologiche dell’emozione “paura” (tachicardia, sudorazione eccessiva, rossore, tremori, mancanza d’aria, ecc.) le interpreta in modo distorto: non come segnali del timore che qualcosa accada, ma come prova che tale terribile minaccia sia proprio in corso. In tale quadro, la persona avvolta e stesa dal panico interpreta come gravemente minaccioso per la propria sopravvivenza ogni evento o stimolo in grado di attivare il funzionamento neurovegetativo. Mantiene un’osservazione ossessiva di controllo sulle proprie sensazioni fisiche e psichiche e interpreta ogni movimento interno ed esterno come minaccia potenziale.

La persona panicata adotta comportamenti che ricercano rassicurazione e di fatto finiscono per alimentare il vissuto di insicurezza e le credenze di auto-svalutazione e vulnerabilità di fronte a qualcosa di insormontabile. Ogni tentativo di raccogliere fonti di sicurezza esterne finisce per confermare un vissuto di sé incapace di governare da solo il proprio stato, la propria vita.

La persona in preda al panico, con l’obiettivo di non risperimentare la paura di perdere il controllo e morire, organizza la sua vita sull’evitamento. Ma ciò non garantisce di fatto una sensazione di reale rassicurazione (nucleo centrale dell’ansia patologica rispetto all’ansia “normale” in cui la persona riesce a trovare e utilizzare fonti di rassicurazione) e finisce solo per restringere il proprio spazio vitale ed espressivo.

La terapia può aiutare la persona a cercare qualcosa di più del pur legittimo desiderio di eliminare il sintomo. La persona può essere guidata a superare la cura del sintomo per imparare prendersi cura di sé, non solo eliminare il disagio e la limitazione, ma farsi carico in toto delle proprie angosce quotidiane, di come si sta affrontando la vita, di quali scelte stanno determinando il proprio malessere e di quali altre possibilità ci sono per creare una vita veramente calata sui propri bisogni e valori.

È possibile allora portare il paziente a sviluppare ed elaborare una lettura diversa sul senso dell’esperienza panico. Un modello di lettura simbolico-relazionale-esistenziale valido per gli attacchi di panico e, più in generale, per le forme del mal-essere psichico.

L’attacco di panico, così come ansia e depressione, altre etichette diagnostiche di cui si fa un ab-uso “troppo generalizzato e generico” (dagli studi dei medici di base fino alla diffusione nei mass media), richiamano l’importanza di un atteggiamento di decodifica del “messaggio espresso dai sintomi”. Sono segnali del mal-essere di una persona, espressioni del suo modo di condurre la vita di sofferenza, disagio, limitazione e perdita di creatività e vitalità.

L’attivazione fisiologica del sistema nervoso autonomo ha un corrispettivo specifico nella formazione dei sintomi che appartengono all’esperienza (sensazioni soggettive vissute) del panico e questi appaiono fenomeni simbolici rispetto al mondo affettivo e relazionale della persona.

Il messaggio “esistenziale” fondamentale del mal-essere è: “guarda che qualcosa nella tua vita non va, qualcosa nella tua vita va messo in discussione, qualcosa nella tua vita va modificato”.

Il panico segnala ed esprime una crisi del proprio modo abituale di essere, di stare al mondo e nelle relazioni, richiama alla necessità di un superamento di sé, quindi invita a seguire le opportunità che la crisi contiene, gli elementi di “rottura” per “re-impostare” la direzione della propria vita.

Il panico è un richiamo alla propria liberazione: inizialmente può sembrare solo portatore di sofferenza, di fatto offre l’indicazione di una o più strade percorribili verso un rinnovato ben-essere, per uscire fuori da gabbie e prigioni auto-imposte, oltre vecchie norme e forme di sé, oltre vecchi ruoli, oltre vecchi imperativi interiorizzati sul dover essere e dover fare.

I sintomi tipici dell’attacco di panico, come riconosciuti e definiti a livello internazionale, offrono spunti esplorativi ad uno sguardo attento alle dinamiche affettivo-relazionali.

La sensazione generale di chi vive il panico è di un attacco sconvolgente di paura. La paura è l’emozione che sperimenta ogni organismo animale di fronte alla percezione di un pericolo o di una minaccia e prepara ad affrontare quel pericolo allo scopo di favorire la sopravvivenza e l’adattamento. Come tutte le emozioni, la paura è associata all’emergere di un bisogno fondamentale rispetto a cui funziona da segnale per attivare i comportamenti necessari a rispondere a quel bisogno. La paura attiva un bisogno di protezione a cui l’organismo risponde con una reazione di attacco o fuga rispetto al pericolo e con la ricerca di vicinanza ad una figura di attaccamento e protezione.

Da un punto di vista simbolico-relazionale, attraverso l’uso di domande specifiche che focalizzano l’attenzione su aspetti di vita sensibili, il terapeuta guida il paziente ad adottare uno sguardo esplorativo sul suo mondo interno (pensieri, emozioni) e su come gestisce attualmente la sua vita quotidiana (relazioni, famiglia, lavoro, tempo, ecc.). Ad esempio, si accompagna la persona che soffre di “paura della paura” con queste domande: di cosa ho paura in questo momento della mia vita? Cosa mi stressa? Cosa rappresenta una minaccia per me nelle mie relazioni attuali? Quali richieste eccessive sento di dover fronteggiare, al lavoro, in famiglia, in altri ruoli o situazioni? Quali mie relazioni rappresentano un carico di richieste e prestazioni “al limite del possibile”?

Per rispondere a queste richieste del quotidiano, del momento di vita attuale o recente (richieste altrui e richieste “auto-imposte”) l’individuo deve attivarsi, ha bisogno di energia; il suo corpo si attiva attraverso un aumento della frequenza respiratoria che garantisce l’ossigeno necessario: la sensazione soggettiva è la “fame d’aria”, quasi un senso di soffocamento. Quali miei spazi vitali sento “soffocati” attualmente? Quali relazioni sono “soffocanti” per me oggi? In quali strettoie mi sono messo nei vari contesti di vita quotidiana?

La percezione di pericolo attiva nell’organismo una necessità di “fronteggiare” a cui di fatto non corrisponde una minaccia reale (come poteva esistere per i nostri antenati). Le “sfide” della vita, gli “alti standard” che poniamo a noi stessi richiedono quindi un’attivazione psicofisiologica a cui non corrisponde una reale possibilità di “espressione e scarica”: da cosa mi sento pressato? In che cosa sto perdendo l’equilibrio? In che cosa sono disorientato e smarrito?

Le aumentate necessità di ossigeno dell’attacco-fuga attivano il funzionamento del cuore che deve aumentare i carichi di lavoro per pompare il sangue con maggiore frequenza e intensità per garantire un afflusso significativo dell’ossigeno ai distretti corporei interessati al maggior fabbisogno, in particolare i muscoli periferici per essere pronti alla competizione e il cervello per governare adeguatamente il comportamento: il correlato fisiologico di questo lavoro extra del cuore è la sensazione di tachicardia, le palpitazioni. In che cosa e da che cosa mi sento oppresso e costretto? Cosa vorrebbe uscire e non riesce ad uscire? Cosa non mi sto permettendo in questo momento?

Ancora seguendo le vie simboliche indicateci da altri sintomi del panico: in che modo sto perdendo contatto con la realtà? Con la realtà delle piccole grandi cose del quotidiano? In che modo tutto questo sconquassa il mio senso d’identità, ciò che so di me stesso e chi credo di essere? In che modo stanno traballando alcune mie certezze? In che modo sono sollecitato a cambiare alcuni miei atteggiamenti fondamentali? Sollecitato da chi? Da quali mie esigenze emergenti? In che modo sto rivisitando o devo rivisitare la gerarchia dei miei bisogni, delle mie priorità, dei miei valori?

Con chi devo “combattere”? Da chi e da cosa devo “fuggire”? Quanto sto indossando o ho indossato una maschera di efficienza che non corrisponde ad una sensazione interna di sicurezza e solidità? In che modo sto indossando una maschera che non corrisponde ai miei moti interni più autentici e ai miei bisogni più importanti ora? Come sto “manipolando” le mie relazioni per apparire ciò che non sono?

Cosa non mi va giù? Cosa non riesco a digerire? Cosa mi crea tensione? Da quali pesi sono gravato? Da cosa sono appesantito? Di cosa è necessario che io mi alleggerisca? Cosa devo lasciare indietro? Cosa devo abbandonare per andare avanti in maniera efficace?

Quali sono i rami secchi che devo togliere dalla mia vita? Relazioni aride? Rapporti stantii? Ripetizioni sterili di situazioni e rapporti?

Cosa sto focalizzando in questo momento della mia vita? A cosa devo prestare veramente attenzione? Cosa mi mette in allarme? In che modo sono focalizzato su esperienze che distolgono la mia attenzione da cose veramente significative per il mio benessere? In che modo devo cambiare e ho paura di cambiare? Quali conflitti assalgono la mia esistenza ora?

In sintesi: di fronte a un pericolo reale, realizzato o incipiente, l’attivazione corporea è necessaria per approntare la risposta che garantisce la sopravvivenza e l’attacco o la fuga rappresentano le naturali azioni di sfogo dell’attivazione fisiologica. Il soggetto tendente al panico, invece, interpreta erroneamente, in senso catastrofico, le fisiologiche temporanee modificazioni dell’equilibrio psicofisico legate alle necessità di far fronte alle evenienze stressanti della vita. L’attivazione somatica non trova un reale pericolo da fronteggiare e resta “bloccata in se stessa” fino ad alimentare un circolo vizioso di amplificazione dell’attivazione fisica che sfocia nell’attacco di panico come sfogo necessario e utile per scaricare l’accumulo di energia e attivazione.

Che fare?

Seguendo un approccio integrato al mal-essere esistenziale del panico esistono diverse linee evolutive della cura, diversi ambiti di intervento sempre presenti, diverse aree di sé cui prestare attenzione:

  • cura dei sintomi: integrazione del farmaco se necessario, tecniche di respirazione e rilassamento, esposizione graduale alla paura e alle situazioni temute
  • relazioni di attaccamento primarie e rappresentazioni interne: lavoro sul copione di vita per “ri-scrivere” modi fondamentali di stare al mondo e governare se stessi nelle relazioni. Cura delle ferite antiche e recupero di un assetto di personalità adulto che sa stare nella realtà, consapevole dei propri valori e bisogni, responsabile di agire in base ad essi
  • cura e sviluppo dell’intelligenza emotiva: capacità di conoscere ed esprimere in modo adeguato le proprie emozioni
  • ristrutturazione del dialogo interno: pensieri disfunzionali e convinzioni limitanti
  • training di comunicazione efficace nelle relazioni: imparare a fare richieste e a dire no
  • approccio motivazionale focalizzato sull’azione: la persona è guidata più direttamente ad agire in maniera diversa dal solito, a modificare concretamente atteggiamenti, comportamenti e stili relazionali, a sperimentare specificamente nuove modalità di comportarsi.

Il panico come metafora del restringimento vitale ed espressivo richiama in generale ad un concetto trasversale ad ogni percorso di crescita: quando indossiamo certe “maschere” le nostre parti “tras-curate” reclamano soddisfazione. Noi siamo sostanzialmente conflittuali per cui ogni scelta prevede una soddisfazione e un “prezzo da pagare”, parti di noi soddisfatte e parti di noi a cui dobbiamo rinunciare. Queste parti “sacrificate” vanno comunque “curate”, dobbiamo prendercene cura anche perché in un modo o nell’altro, in una forma o nell’altra, con un certo grado d’intensità, più o meno imperioso, reclamano soddisfazione, chiedono di essere riconosciute, guardate, ascoltate, curate.

Infine, se è vero che il messaggio “esistenziale” fondamentale del mal-essere è “guarda che qualcosa nella tua vita non va, va messo in discussione, va modificato”, è, in particolare, vero che questo è un invito diretto alla persona a prendersi cura di sé: a chiedere aiuto e sostegno affinché qualcuno si prenda cura di sé. Al tempo stesso, è un invito alla responsabilità personale di mettere in discussione i propri assetti abituali, ad agire concretamente per modificare certi sentieri comportamentali, relazionali, affettivi.