Prima salva la pelle, trova un riparo, proteggiti dai pericoli e dai nemici, poi pensa a mangiare. Se pensi prima al cibo rischi di diventare paffutello e ancora più succulento tra le fauci del tuo predatore. Questo ci ha insegnato l’evoluzione.
Il bambino ha, dunque, bisogno di cura e protezione, amore e stima, per sopravvivere, per crescere sano e vitale, per imparare a cavarsela, per avere quindi una sufficiente base sicura e diventare autonomo, indipendente, capace di esplorare il mondo, creare relazioni nutrienti e di autorealizzarsi. E anche di mangiare buone cose.
Questo bisogno primario di protezione e amore viene manifestato dal bambino in tanti modi che confluiscono sostanzialmente nella richiesta, implicita ed esplicita, a seconda dell’età del piccolo, che suona come “prenditi cura di me, amami, fammi sentire che sono importante per te”.
Questa richiesta incontra la risposta del genitore (o dell’adulto che se ne prende cura) che può essere più o meno soddisfacente ovvero può essere più o meno rispondente a quanto il piccolo chiede.
In base a queste prime fondamentali interazioni, ripetute più o meno allo stesso modo (ad esempio, un genitore risponde in modo sollecito, un altro risponde in modo freddo e distaccato, un altro ancora risponde in modo imprevedibile e invadente, a volte sollecito altre distaccato, o ancora un altro risponde in modo totalmente caotico e disorganizzato), il bimbo si crea un’idea di come funzionano le cose, in particolare impara ad aspettarsi certe risposte e non altre. Queste idee e aspettative creano una memoria storica quasi totalmente inconsapevole perché origina quando il bambino non ha ancora capacità raffinate di pensiero e linguaggio. Una memoria che è iscritta nel corpo: le sensazioni corporee sperimentate nell’esperienza più o meno positiva di accudimento sono le radici delle emozioni, restano nel corpo sottoforma di sensazioni fisiologiche.
Successivamente, da adulti, certe situazioni sentimentali, di coppia e anche di amicizia, connesse al “prendersi cura reciproco ed amarsi”, risvegliano quella memoria e quindi la persona tende inconsciamente ad aspettarsi il ripetersi delle antiche situazioni emotive e relazionali. Quello ha conosciuto, quello si aspetta che riaccada. In questo senso la persona è abbastanza cieca rispetto alla realtà attuale che tende inconsapevolmente a vivere come fosse sempre uguale alle origini.
Quindi chi si è sentito amato e protetto tenderà ad aspettarsi di ricevere lo stesso trattamento amorevole. E questo tenderà a favorire nelle sue relazioni…
Chi si è sentito rifiutato o non riconosciuto o non visto o non considerato tenderà ad aspettarsi risposte fredde, distaccate, non sintonizzate col proprio stato mentale. E probabilmente queste troverà…
Chi si è sentito senza controllo e vittima degli umori e dei movimenti altrui tenderà a prevedere relazioni orientate dai bisogni dell’altro con un esito più o meno frustrante dei propri bisogni non ascoltati. E quasi certamente resterà frustrato e deluso…
Chi si è sentito addirittura nel caos, nella paura e nell’immobilità più assoluta, si aspetterà relazioni disorganizzate e spaventose. E le sue relazioni saranno sempre più frammentate, confuse o vuote.
Ciascuno tende a “preformare” le relazioni con gli altri in base alle proprie aspettative e l’incontro può essere più o meno sano o malato a seconda del rispettivo “mondo interno” e della “memoria storica” da cui le persone sono guidate.
Il tutto, peraltro, avviene al di fuori della consapevolezza.
Quando cominciano a sorgere problemi, conflitti, incomprensioni che si ripetono, probabilmente le persone sono entrate nel mondo della loro ferita verso cui si è ciechi e che rende incapaci di vedere anche quella dell’altro.
Il lavoro su di sé prevede di imparare a fare un passo indietro per guardarsi dall’esterno e riuscire ad osservare “la ferita in azione”, la memoria interiore traumatica che governa ORA lo svolgersi delle interazioni interpersonali, il modo di percepire le situazioni e di interpretare i fatti, il modo di sentire le emozioni, di modularle ed esprimerle, il modo di agire e di reagire all’altra persona. L’obiettivo ultimo del lavoro su se stessi è di riuscire a provare meno dolore ogni volta che la ferita si riattiva e di riuscire con ciò a disinnescare i circoli viziosi che creano relazioni piene di incomprensione, rabbia, risentimento, sfiducia e dolore.
Probabilmente la ferita tornerà a trovarci ancora per molto tempo, forse “dalla culla alla tomba”, ma ci troverà sempre più pronti a governarla, a lenire il dolore, a lasciarci comunque liberi di orientare la nostra vita e le nostre scelte in modo più sereno e vicino alle nostre spinte realizzative più autentiche e vitali.
Dalla culla alla tomba
