La guarigione

Ciascuna persona arriva in psicoterapia con la sua sofferenza, la sua storia, i suoi precedenti tentativi di soluzione e cura, i suoi limiti e le sue risorse, con le parti forti e con quelle fragili. La richiesta esplicita ed implicita è: aiutami a “guarire”. E ogni persona ha una propria idea di guarigione, come di cura, come di cambiamento.
Il lavoro fondamentale in psicoterapia, nel rispetto e nel valorizzare l’unicità della storia di vita di ognuno, è quello dell’elaborazione e dell’esperienza emotiva trasformativa.
Partendo da problemi attuali e da ricordi anche molto antichi, la persona arriva a “guarire” la sua sofferenza e la sua ferita e a ridurre in modo significativo la sua vulnerabilità, la sua tendenza a rivivere gli stessi scenari dolorosi che ha vissuto tante volte nella sua vita.
A seconda dei modelli psicoterapeutici, del terapeuta, del paziente, dei suoi problemi e di altre variabili ancora, questo lavoro può avvenire in svariati modi che portano, comunque, la persona a passare attraverso tre tipi di esperienza e consapevolezza.

NON È DETTO CHE SIA PROPRIO COSÌ. La persona impara a dare un significato diverso alle esperienze, differente da quello che ha sempre creduto e vissuto. Ad esempio, molte volte che il capo mi aggredisce non vuol dire che sono un incompetente, ma che lui è iracondo e violento, che potrebbe comunque usare un modo più rispettoso ed efficace per dirmi quello che mi vuole dire, che così non mi aiuta a crescere, che posso accettare le critiche ma non devo per forza accettare la mancanza di rispetto, ecc.. Altro esempio, antico e magari collegato al presente: ho sempre creduto che i rimproveri feroci e continuativi di papà fossero segno della mia “cattiveria” o del mio essere “sbagliato”, oggi mi rendo conto che probabilmente erano l’espressione dell’incapacita di papà di aiutarmi a fare i compiti, della sua mancanza di pazienza, delle sue aspettative elevate nei miei confronti che diventavano per lui delusione e rabbia, della sua incapacità di parlarmi in modo sereno, dei problemi al lavoro che scaricava a casa, anche con mamma e mio fratello, ecc..

NON È NECESSARIAMENTE SEMPRE COSÌ. Quello che ho imparato da piccolo (e da grande) su di me, sugli altri, su come funzionano il mondo e la vita, è solo uno dei vari modi in cui ci si può rappresentare tutto questo. Ad esempio, il fatto che papà picchiasse sistematicamente mamma non è necessariamente la regola dei rapporti uomo-donna… Se al lavoro c’è un clima di competizione selvaggia e violenta non è detto che questo sia l’unico modo per lavorare o che io troverò sempre ambienti di lavoro di questo tipo. Anche se non sono capace a fare lavori di fatica fisica non è detto che io sia assolutamente inadatto a compiere ogni altro lavoro che pure richiede sforzo e disciplina. Se da papà ho imparato a “volare basso” non è detto che oggi io non possa inseguire traguardi ambiziosi.

NON È MORTALE. Un’esperienza difficile e dolorosa può essere comunque sostenibile, tollerabile, affrontabile. Il dolore non è necessariamente “trauma”. Ad esempio, non è detto che io debba fare una cosa solamente quando avrò “ansia zero”, posso, invece, fare una cosa che mi interessa sostenendo una quota d’ansia che l’accompagna. Posso affrontare un conflitto con dolore e paura senza per questo esserne annientato e sconvolto. Posso licenziarmi ed essere addolorato, arrabbiato e preoccupato e, al tempo stesso, essere pronto a cercare un nuovo lavoro con fiducia ed intraprendenza.

Quando la persona trasforma internamente il senso delle esperienze vissute fino ad allora in un unico modo rigido e le convinzioni che si portava dietro da tempo, il cambiamento efficace è avvenuto e la persona può cogliere davanti a sé una molteplicità di nuove possibilità di pensiero e di azione…

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