L’errore del setaccio. Esercizio

Un po’ tutti, chi più chi meno, incappiamo in alcuni errori comunicativi che se non riconosciuti possono creare conflitti nelle relazioni. Questi errori, in realtà, sono vere e proprie modalità in cui tipicamente tendiamo a restare incastrati, con molta difficoltà ad imparare dall’esperienza, anche quando questa è fatta di liti e tensioni, chiusura e rabbia, incomprensioni e rifiuti. Emozioni dolorose e, a volte, anche rotture di relazioni importanti.
Uno degli errori più comuni è quello di interpretare in modo distorto o eccessivamente “personale” ciò che l’altro ha detto o fatto.
Per certi versi, interpretare le cose che ci accadono, in particolare nelle interazioni con gli altri, è fondamentale e inevitabile, anzi necessario perché dare senso alla realtà ci permette di prevedere, controllare e governare ciò che sta accadendo e potrebbe accadere. L’errore esiste quando la nostra modalità interpretativa è troppo spinta, quando il punto di partenza (ciò che è successo fuori di noi, ciò che l’altro ha detto e fatto, magari il tono di voce che ha usato o lo sguardo che ha avuto) è veramente minimo rispetto al resto di una costruzione di senso che diventa fortemente basata su nostre fantasie e su letture che, in realtà, traggono linfa dal nostro mondo interiore, dalla nostra ferita, dai nostri drammi infantili che in qualche modo viviamo ora come se si stessero ripetendo. Ad esempio, l’altro ci ha chiesto “aiutami a fare questa cosa” e noi magari gli diamo una “rispostaccia” che va ben al di là di quanto la situazione potrebbe richiedere … Magari rispondiamo sì a quella richiesta, ma lo facciamo in modo rabbioso e controvoglia. Oppure rispondiamo no come se ci avesse chiesto qualcosa di impossibile o di impensabile. È probabile, ma questo deve essere visto da caso a caso, che quella “semplice” richiesta di aiuto sia stata “filtrata” attraverso “il setaccio della nostra ferita interiore” che, ad esempio, ci fa vivere ogni richiesta come ingiusta o come soffocante o come un’imposizione o come un intento di manipolazione o in tanti altri modi possibili che abbiamo imparato da bambini, quando abbiamo imparato a percepire le richieste come in qualche modo “pericolose”.
Cosa possiamo imparare da questo errore di “troppo libera” interpretazione? È evidente che la persona deve imparare a farsi carico della propria interpretazione, deve riconoscere cosa è “reale” e riguardante quello che sta succedendo nell’interazione qui e ora e cosa, invece, è frutto della propria “lettura infantile” che tende a riproporre. Rendersi conto di questo nostro funzionamento ci permette di conoscerci meglio, di dare senso al nostro modo tipico di interagire per come lo abbiamo imparato da piccoli quando è stato utile e vitale per noi, di ri-appropriarci di questa parte di noi. Inoltre, ci permette di “correggere” l’errore in termini pratici, nella relazione attuale ai fini di una migliore comprensione reciproca. Ad esempio, con gradualità e pazienza, soprattutto nelle situazioni che mi creano maggiori problemi con l’altro, ed emozioni negative quali rabbia, tristezza, paura, solitudine, ecc., posso cominciare a chiedermi chi “rappresenta” questa persona per me in questo momento (di solito rappresenta un genitore o un’altra figura d’autorità o significativa della nostra infanzia) e come posso distinguere “le mie proiezioni” da quello che effettivamente l’altro ha detto o fatto. Per questo uno dei primi passaggi necessari di ogni comunicazione efficace è l’osservazione specifica e precisa di ciò che l’altro ha detto e fatto, la descrizione di ciò che tutti potrebbero aver visto e percepito allo stesso modo, prima del filtro interpretativo che comunque ciascuno di noi ad un certo punto utilizza.

Puoi esercitarti sistematicamente a fare “un passo indietro” e osservare la tua lettura della situazione da una posizione “decentrata” chiedendoti se il modo in cui stai percependo quella situazione è l’unico “vero”, se ce ne sono altri possibili e quale potrebbe essere la lettura e quindi l’intenzione dell’altro…

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