Questa è una domanda frequente che mi fanno i pazienti, soprattutto quelli che, attraverso la psicoterapia e altri percorsi di crescita personale, hanno lavorato molto su di sé e, “pur avendo migliorato notevolmente la qualità della loro vita”, continuano a confrontarsi con la loro ferita primaria, col dolore antico di sentirsi non amati, rifiutati, abbandonati, non visti, non riconosciuti, non apprezzati, ma anche giudicati, rimproverati, invasi, “abusati” emotivamente se non fisicamente.
La persona ha lavorato tanto sulla sua ferita.
- Ha ridotto notevolmente le sue sensazioni di sofferenza, i suoi sintomi psicologici, i suoi malanni somatici, le sue emozioni negative; il tutto è diventato meno intenso, meno invasivo, meno doloroso.
- Ha elaborato in modo nuovo ricordi traumatici, emozioni dolorose ed eventi significativi della sua vita che sono diventati interiormente meno violenti e meno scioccanti o che hanno acquisito un significato e una collocazione interiore meno disturbante.
- Ha rivisitato i suoi modi di pensare, le sue credenze e convinzioni sono diventate più realistiche, maggiormente funzionali alla soddisfazione dei suoi scopi nei diversi ambiti di vita.
- Ha imparato nuovi modi di agire, i suoi comportamenti si sono ripuliti, sono minori le abitudini nocive, sono più chiari i nessi tra quello che vuole e quello che fa.
- Ha migliorato i suoi rapporti interpersonali, riesce a governare le sue relazioni in modo più consapevole, sano e responsabile.
- Ha imparato ad elaborare molteplici lutti; non solo la scomparsa di persone care, ma anche la perdita di ideali, il fallimento di progetti, la disillusione, le perdite e i distacchi nel cammino della vita.
- Ha imparato ad accettare la frustrazione, la delusione e l’impotenza inevitabili che l’esistenza porta con sé e a dire “è andata così”.
Eppure ogni tanto il dolore ritorna, la ferita riappare, vecchi schemi e situazioni sembrano ripresentarsi identiche a se stesse. Per cui la persona si chiede: ma quando finirà tutto questo? Quando guarisce la ferita? Quando guarirò?
La persona, allora, si risponde in modo utile quando “impara veramente a valorizzare i suddetti cambiamenti che ha realizzato” a livello di: comportamenti più efficaci e sani; pensieri più chiari e lucidi; emozioni più regolate e meno distruttive; relazioni più appaganti; maggiore capacità di fare scelte in modo consapevole, centrato e responsabile. In definitiva, “la ferita è qualche cosa che ritorna, a volte ritorna, anche se sempre meno frequentemente, sempre meno invadente, sempre più agevole da governare” per la persona che è cresciuta e conosce meglio se stessa e i propri meccanismi interni e interpersonali. Di fatto, la ferità è qualcosa che ci appartiene, è la nostra sensibilità personale, è la nostra reattività che ci caratterizza, ce la portiamo con noi da sempre, da quando da piccoli abbiamo imparato a stare al mondo. In qualche modo, è la nostra identità, un pezzo importante del nostro senso di identità, di chi siamo e sentiamo di essere. È difficile rinunciarci definitivamente. Sarebbe come privarci di un pezzo del nostro corpo. Di fatto, è parte integrante del nostro modo di essere; abbandonarla completante, in modo controintuitivo, potrebbe destabilizzarci, farci smarrire, farci sentire persi. Se non sono più quello che sono sempre stato chi sono allora? Sarebbe uno stravolgimento troppo estremo della visione di sé, della vita, del mondo, degli altri. Un nostro bisogno fondamentale sappiamo essere quello di controllo, prevedibilità e coerenza interiore.
Il cambiamento terapeutico e di sviluppo personale, allora, si sostanzia nella:
- riduzione della sofferenza legata alla ferita
- riduzione della frequenza e dell’intensità con cui si riattiva la ferita
- capacità di padroneggiare in modo più efficace le emozioni connesse al dolore antico
- capacità di “riconoscersi identici a se stessi pur avendo fatto tanti cambiamenti”.