La psicoterapia di coppia come quella individuale può aiutare le persone in diversi modi. Di solito, c’è una richiesta di aiuto che può essere più o meno chiara e definita per le persone che arrivano in terapia. A volte la richiesta è molto specifica e precisa (“aiutami a superare questa fobia”, “aiutami ad affrontare il mio capo”, “aiutami a gestire i conflitti con mio marito”, “aiutami a capire come posso essere un genitore attento e responsabile”, ecc.), altre volte la richiesta è meno chiara e specifica, ad esempio, “aiutami a stare meglio”, “a superare questo momento critico”, ecc. e da questa richiesta generica arriviamo a trovare obiettivi più specifici su cui focalizzare gli interventi.
Quando lavoro con le coppie o anche quando un singolo mi parla dei suoi problemi nella coppia, una situazione molto comune, per non dire quasi sempre presente, è la richiesta di “riaggiustare” la coppia. Comprensibile. Al tempo stesso, mentre cerchiamo di esplorare e comprendere gli elementi in ballo, viene spesso a delinearsi come la soluzione migliore possibile non è detto che sia riaggiustare quanto rotto, ma piuttosto, nel caso delle coppie, potrebbe essere chiudere la relazione, lasciarsi, separarsi. Ovviamente con tutti gli annessi e connessi della faccenda, mai semplice, ad esempio, è diverso separarsi dopo un anno o dopo dieci anni, è diverso separarsi a 20 anni o a 50, se si è sposati o meno, se si convive o meno, se si hanno figli oppure no. È diverso se c’è stato un tradimento. E così via. È meglio separarsi o continuare a provarci? Eventualmente su quali nuove basi impiantare il nostro “nuovo” progetto di coppia?
Un fattore comune in tutti questi casi è una domanda che, prima o poi, mi ritrovo a fare alle coppie con cui lavoro o ai singoli che mi portano la crisi della coppia. Cosa ti ha portato a scegliere il tuo partner?
La domanda sembra banale. La risposta scontata: “bello, simpatico, forte, dolce, gentile, passionale, intelligente, pieno di interessi, rispettoso, sensibile, sicuro di sé, ricco, grande amatore”. E anche qualcosa di più. Bene. Ovvio, forse. E poi “prima o poi ti devi accompagnare”. “Lo fanno tutti” (quasi). “Per paura della solitudine o del giudizio sociale” di chi non si conforma al modello dominante. “E poi volevo almeno un figlio…”.
Ma non basta. Oltre a queste motivazioni, più o meno consapevoli, e comunque abbastanza facilmente accessibili come spiegazione a posteriori del formarsi e mantenersi di una coppia, dobbiamo andare a cercare anche altre fonti che possano spiegare almeno la creazione di un legame “sufficientemente” stabile e “sufficientemente” sereno e soddisfacente.
Le relazioni vissute in famiglia coi propri genitori hanno un impatto più o meno massiccio sulla formazione e il mantenimento della coppia. Con modalità e tipi di influenza che possono essere anche molto diversi tra loro, c’è un’impronta originaria che, per identificazione (imitazione) o contro-identificazione (ribellione), determina il tipo di partner che andremo a “scegliere” e il tipo di relazione che andremo a “formare”. Il grado di sicurezza, fiducia, amore, protezione, conforto, stima, sperimentato in famiglia, orienta quello che succederà nelle relazioni future. Da bambini, in modo inconscio, interiorizziamo una o più convinzioni da cui derivano vere e proprie prescrizioni su come devono andare le relazioni di coppia, che tipo di comunicazione è permessa o proibita tra partner, che significa essere una buona compagna, che significa essere un amante appassionato, chi può e non può fare certe cose, chi deve e non deve farne altre. Quali sono i ruoli della donna e quelli dell’uomo? E questo è un lavoro di investigazione che richiede un’esplorazione interiore profonda su come uno o più accadimenti significativi in famiglia, ma soprattutto su come le modalità dello “stare in coppia” viste in famiglia, abbiamo sollecitato la formazione di credenze e convinzioni su come funziona o deve funzionare la coppia. Spesso, ad esempio, stati emotivi di profonda insicurezza e gelosia nascono dal non essersi sentiti sufficientemente apprezzati, amati e valorizzati dai propri genitori, al di là delle loro intenzioni consapevoli e dei loro comportamenti manifesti. A qualche livello, sia nelle interazioni in cui è stato direttamente coinvolto, sia nell’osservazione dei genitori, sia nel respirare il clima valoriale familiare (le idee della famiglia su come deve funzionare una coppia), quel bambino diventato adulto avrà “compreso” quale partner scegliere…
Ad un livello più individuale, ma sempre originato dalle ceneri delle vicissitudini infantili, ogni persona sceglie il proprio partner guidato dalla convinzione inconscia che dovrà essere lui/lei a curare le proprie ferite infantili, a riempire i vuoti affettivi, a dare ciò che non ha ricevuto in origine, a ripagare il debito affettivo, a risarcire il danno emotivo…
Un altro potente collante della coppia è l’incastro psicologicamente perfetto per cui due persone sembrano fatte apposta l’una per l’altra nella misura in cui sono “complementari” nel modo di essere e di porsi nella relazione. Complementari in modo, a volte, “patologicamente perfetto”, per cui, ad esempio, si incontrano la Vittima e il Persecutore, il Malato e il Salvatore, il Super sano e il Super malato, l’estremamente bisognoso e fragile e la persona super-forte, chi ha bisogno di essere continuamente applaudito e chi ha bisogno di appoggiarsi a qualcuno da cui dipendere. E via così…
Interpellando anche un livello genealogico, a volte troviamo che la scelta del partner “ripropone” modelli di coppia presenti da secoli nelle varie generazioni di quella famiglia, modelli incarnati in modo inconsapevole dalle varie persone e che in qualche grado servono a mantenere equilibri più o mano sani nel funzionamento di quella matrice psicogenealogica
Di fatto, la scelta del partner sembra tutt’altro che libera e i motivi apparentemente più ovvi sono solamente la superficie di motivazioni e significati che si annidano nell’inconscio individuale dei due partner, figli delle rispettive famiglie, delle rispettive storie familiari, di nodi irrisolti, aspettative e pressioni di cui entrambi si sono fatti carico, inconsciamente quanto indebitamente.
La terapia aiuta a dipanare questa matassa, a chiarire i pesi e i debiti affettivi, a sciogliere nodi irrisolti e a “restituire” al legittimo proprietario le questioni emotive ancora senza soluzione. Questo significa alleggerire notevolmente la persona che sta facendo questo lavoro di esplorazione profonda e dolorosa. E significa aiutarlo nel suo processo di differenziazione rispetto alla matrice familiare e individuazione rispetto ai “comandamenti” familiari: sono figlio di questa famiglia e, al tempo stesso, sono un individuo autonomo, capace di scelte consapevoli, libere, autentiche, oltre ciò che è lecito e proibito dall’appartenenza familiare…
Per la coppia può volere dire aprirsi a nuove possibilità di “ri-scegliersi” o anche lasciarsi con maggiore serenità…
Tutto verissimo, tutto sacrosanto.
Peccato che questa consapevolezza arrivi (quasi) sempre quando la relazione è andata avanti al punto dal creare una famiglia, da mettere al mondo dei figli.
Peccato che questa consapevolezza arrivi (quasi) sempre solo per una delle due parti in causa.
Peccato che arrivi (a volte) quando la strada di uno dei due ha già incrociato quella di una terza parte in causa.
Peccato, infine, che nessuno ci “insegni” la vita secondo questa consapevolezza; di certo non era possibile ricevere questo insegnamento per l’attuale generazione dei 40/50 enni; pertanto siamo noi che abbiamo l’enorme responsabilità di “insegnare” ai nostri figli o meglio di metterli in condizione di vedere che esistono invisibili quanto potenti “casualità”.
Grazie
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Grazie a te Cristina. Il tuo commento pieno di Peccato… e il riferimento finale alla responsabilità individuale ci ricorda quanto il confronto con certi temi non sia affatto semplice, anzi può essere proprio molto doloroso. Così è la vita. E questo, non tanto o non solo nell’ottica della trasmissione alle future generazioni, ai propri figli, quanto mettendo se stessi al centro delle proprie scelte libere consapevoli e responsabili. Verità banale quanto fondamentale: ogni scelta ha un prezzo da pagare. Allora, alla luce della consapevolezza maturata, con un carico più o meno grande di delusione, rabbia, dolore, impotenza, possiamo (dobbiamo) chiederci: come posso agire per cambiare il cambiabile (sapendo che non possiamo cambiare gli altri…)? Cosa devo accettare (perdita, lutto, disillusione) e come posso farlo con sufficiente serenità?
Grazie ancora. Buona vita
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In effetti ho imparato a mie spese che devo mettere me stessa al centro e accettare la disillusione, rimanendo comunque – ahimè o per fortuna – un’inguaribile romantica.
Così come ho capito che serve tanto coraggio ad andare, almeno quanto ne serve a restare, nell’attesa di tempi più maturi.
Grazie a Lei per i Suoi impagabili spunti di riflessione.
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