Molte persone non compiono cambiamenti importanti nella loro vita, cambiamenti che potrebbero migliorarla significativamente, perché non sono disponibili ad accettare il disagio che accompagna il cambiamento. Molti pazienti, praticamente tutti, prima o poi, mi arrivano a dire: “ho capito che cosa dovrei fare” oppure “forse sarebbe bene che io facessi questo” o anche “credo che fare questa cosa cambierebbe la mia vita”… “però non è facile!!!”. “Non ci riesco…”. E io dico loro: “capisco che non è facile… se fosse stato facile non ne staremmo nemmeno a parlare… se fosse stato facile ci saremmo incontrati a prendere un caffè piuttosto che in uno studio di psicoterapia”.
Quasi sempre sotto quelle espressioni alberga la paura. Ciò che non riesco a fare è ciò di cui ho paura. Paura delle conseguenze, paura di affrontare ciò che potrebbe succedere, ciò che succederà. La questione è proprio questa: il cambiamento richiede di andare oltre la paura; le cose migliori, dice qualcuno, stanno oltre la paura.
Probabilmente, questa aspettativa di cambiamento “facile”, in alcuni casi, è figlia di una modalità infantile “voglio tutto, subito e comodo” (la pappa pronta, qualcuno che lo fa al posto mio, qualcuno che si assume il carico, ecc.). Infantile nel senso di immatura, irresponsabile, fondata sulla pretesa che “le cose devono essere come voglio”, senza se e senza ma.
In realtà, a pensarci bene, ottenere le cose in modo semplice o senza affrontare disagio, paura, fatica ecc. è più l’illusione dell’adulto che la modalità del bambino. La capacità di tollerare la frustrazione (non sempre ottengo quello che voglio) e posticipare la gratificazione (posso “aspettare” per ottenere quello che voglio) sono due abilità fondamentali nel processo di crescita. E tutti i bambini, cresciuti in “normali” condizioni di accudimento, si sono cimentati in questo apprendimento. Forse non tutti ricordiamo che, quando siamo stati piccoli, le cose non sono venute così facilmente… Molte delle cose che abbiamo imparato le abbiamo fatte nostre attraverso la fatica, l’incertezza, la paura, le cadute a terra; come quando abbiamo imparato a camminare… come quando abbiamo imparato a parlare… come quando abbiamo imparato ad accettare un “no” dei nostri genitori (magari a fronte di tanti “sì”). La differenza è che il bambino è guidato, sostenuto e spinto dall’entusiasmo, dalla curiosità, dall’eccitazione, dal piacere immaginato… Molti adulti, invece, hanno perso quella capacità di entusiasmarsi e di cavalcare la propria curiosità; hanno perso quella capacità di bramare un piacere futuro anche se nell’immediato costa un po’ di fatica e frustrazione. Molti adulti sono maggiormente focalizzati sull’evitare ogni dolore a breve termine (ogni fatica, ogni attesa, ogni “fallimento”) e si perdono l’orizzonte di una gratificazione futura.
Chi più chi meno incontriamo tutti “pensieri autolimitanti” che ci invitano a rinunciare, che ci fanno desistere dall’impegnarci per raggiungere ciò che vogliamo. Sono pensieri del tipo “non ce la fai”, “non hai le capacità”, “è troppo difficile o troppo più grande di te” e una miriade di altri pensieri che tendono a bloccarci, a farci abbandonare il desiderio, con tutte le emozioni conseguenti di tristezza e sconforto, senso di sconfitta e fallimento, rabbia e sensi di colpa, vergogna e senso di inadeguatezza, disistima e scoraggiamento, ecc.
Al cospetto di tali pensieri e vissuti diventa fondamentale un atteggiamento interiore e molto pratico, al tempo stesso, fondato su alcune domande che favoriscono auto-esplorazione e riflessione:
- In che modo tali pensieri autosvalutanti e autolimitanti mi sono utili?
- Come possono aiutarmi a realizzare il mio desiderio e a soddisfare il mio bisogno?
- In che modo mi aiutano a crescere?
- Come possono aiutarmi ad affrontare il problema?
- Come possono aiutarmi a ridurre lo scarto tra ciò che ho e ciò che vorrei?
- In che modo mi aiutano ad apprendere le abilità necessarie per affrontare il problema?
Ad esempio, una convinzione autolimitante come “non so parlare l’inglese per poter lavorare all’estero” potrebbe portarmi ad abbandonare il mio desiderio di recarmi negli USA a lavorare oppure potrebbe darmi la spinta a fare un corso per impararlo… E quindi ad intraprendere l’azione necessaria a quell’obiettivo…
Che vuol dire che “volere è potere”? Che siamo onnipotenti? Che tutti possiamo costruire la felicità che vogliamo “basta volerlo”? Certo che no. Sarebbe una falsa illusione destinata a fornirci una prevedibile cocente delusione. Quello che più realisticamente vuol dire è che possiamo tutti comunque “concretamente” impegnarci e “realisticamente” partire verso la vita che vogliamo, sapendo che incontreremo frustrazioni, delusioni, sconfitte (come quando eravamo bambini…), ma che queste esperienze potranno comunque essere rese utili nel cammino di avvicinamento a ciò che desideriamo, ad una vita che per noi vale la pena di essere vissuta.
Ultimo, ma non meno importante, facendo attenzione alla nostra umana naturale tendenza a paragonare la nostra vita reale alla vita ideale che immaginiamo: i nostri desideri con le nostre aspettative su ciò che vogliamo “perché dovremmo averlo”, “perché altri ce l’hanno”, “perché è un mio diritto prima che un mio bisogno”, “perché a me la vita ha già tolto tanto”… Certo potrebbe essere vero che la vita non è stata benevola con noi (infanzia difficile, genitori trascuranti, malattie, incidenti, sfortune varie). Che mi vuoi dire che il fango è cioccolata? Certo che no. Quello che voglio dire è che se amiamo la cioccolata oggi, da adulti, è nostra la responsabilità di andarla a cercare, senza sguazzare nella passività auto-giudicante, oltre ogni sterile vittimismo o colpevolizzazione degli altri…
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